Il rogo nel porto, di Boris Pahor
Sì, certo, anche la zia Johanca portava le fiabe nel loro scantinato; e le sue fiabe avevano il
colore dei ciclamini e delle felci lungo il ruscello dove d’estate andavano a caccia di granchi. In
quel buco sottoterra si sprigionava allora un profumo di mele della valle di Vreme e si sentiva il
gorgoglio delle ruote del mulino. Ma le vere fiabe erano quelle di Mizzi. La sarta Mizzi abitava a
pianterreno, cioè sopra di loro, sopra la loro “abitazione” – un locale con due finestre affacciate su
un cortile – che una larga barra di ferro divide in due; il muro del cortile davanti alle finestre viene
sfiorato dal sole soltanto lungo il bordo superiore. Lo lambisce appena e fiaccamente, come la gatta
tisica che lecca i suoi gattini sul tetto incatramato al di là del muro.
Ma per loro la stessa Mizzi è quasi una fiaba. Una ragazza piccola e tondetta che parla in
tedesco con lo zio dai capelli grigi. Un po’ dura d’orecchio e con grandi occhi, ma a loro bambini
appare misteriosa soprattutto per quelle parole che lo zio le rivolge quasi gridando, e di cui non si
capisce il senso. Pertanto Mizzi, che potrebbe essere come tutte le altre ragazze ventenni, risulta un
po’ particolare. Però le vogliono bene e giocano ogni giorno nella sua stanza e fanno girare il
manichino di legno sul quale mette in prova gli abiti.
«E sta’ buono!» disse Mizzi a Branko.
«Mizzi, una fiaba, per favore» intervenne Evka.
Olgica, la più piccola, sedeva sul davanzale con i piedini sul lucido legno della macchina da
cucire. Molto più in basso c’erano le finestre della loro abitazione, e sotto le finestre, sul fondo di
cemento, ratti, ossa e teste di sardine essiccate. Dall’altra parte del muro di cinta gli operai
dell’officina martellavano il ferro e lo levigavano tutto il santo giorno, e tutti i santi giorni. Alle
cinque del pomeriggio si denudavano fino alla cintola, si lavavano sotto il rubinetto ed erano di
buon umore. Si insaponavano braccia e collo, e la schiuma si tingeva di scuro per l’olio di
macchina. Poi tutto diventava silenzioso, soltanto la macchina da cucire di Mizzi continuava a
crepitare davanti alla finestra aperta.
«Mizzi, ci racconti una fiaba!»
Ma Mizzi è spesso trasognata e assente. Allora tace caparbia come ogni volta che lo zio è stato
cattivo con lei; loro però non sanno perché si comporti così, dato che lo vedono solo di rado.
La sua stanza sta dall’altra parte del corridoio, grigia e fredda come lui. Nella stanza c’è anche
una scrivania, ma lui non vi si siede perché è già vecchio e in pensione, e sul comodino tiene
sempre il libro di preghiere tedesco. La sera lo si sente pregare con quel libro e Mizzi sta
inginocchiata sul parquet e prega con lui. Lo zio assomiglia a Francesco Giuseppe, quando prega
sull’inginocchiatoio, e forse è così severo perché la città di Trieste non è più sotto il dominio del
suo imperatore. Chissà! E forse proprio per questa ragione vuole morire con fierezza così come
andarono a picco maestose, nel golfo antistante la città, le navi da guerra Tegetthoff e Wien. Loro
marmocchi non sanno nulla di tutto ciò, ma sono adirati con lui perché è tanto antipatico quando
sgrida la Mizzi trattandola da serva e lei poi piange. Porta un berretto di pelliccia nero, da sotto il
quale sgusciano fuori ciocche di capelli grigi. Con la vestaglia marrone, le ciabatte ai piedi e quel
berretto in testa sembra un santone asiatico. Se ne sta sempre nascosto da qualche parte eppure è
1
sempre presente, in un angolo buio del corridoio, in un’ombra dietro la porta, o nella tetra e fredda... continua http://aestovest.osservatoriobalcani.org/luoghi/pdf/Il_rogo_nel_porto.pdf
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