12 lug 2016

Quando si usavano i neri come cavie: l’infame esperimento di Tuskegee

La storia dello studio più infame della storia americana: centinaia di afroamericani di Tuskegee, in Alabama, usati come cavie da laboratorio per quarant’anni
Alcune vittime dell'esperimento di Tuskegee (foto: Department of Health, Education, and Welfare. Public Health Service. Health Services and Mental Health Administration. Center for Disease Control. Venereal Disease Branch (1970 - 1973). [Public domain], via Wikimedia Commons
Alcune vittime dell’esperimento di Tuskegee (foto: Department of Health, Education, and Welfare. Public Health Service. Health Services and Mental Health Administration. Center for Disease Control. Venereal Disease Branch (1970 – 1973). [Public domain], via Wikimedia Commons
Forme immorali di sperimentazione umana sono un leitmotiv delle più popolari teorie complottiste, dalle scie chimiche ad Haarp. Le versioni sono molteplici, ma in generale tali scemenze dipingono uno scenario di questo tipo: qualcuno (Illuminati, Rettiliani, il Bigfoot ecc…) vuole dominare il mondo, e per controllare e/o sterminare la popolazione usa raffinatissime tecnologie che gli scienziati (complici) negano di conoscere, ma che i blog e le pagine specializzate sull’argomento sono in grado di svelare nei dettagli.
Nel mondo reale esistono davvero esempi in cui la sperimentazione umana è stata effettuata in modo contrario ai più elementari principi etici, ma non c’è bisogno di invocare chissà quale piano o segreto. Razzismo e ambizione sono più che sufficienti per convincere un gruppo di persone a violare ripetutamente i diritti umani, e a far sì che il mondo per decenni guardi da un’altra parte. Uno dei casi più famosi è l’esperimento di Tuskegee (Macon County, Alabama), durante il quale centinaia di afroamericani furono utilizzati come animali da laboratorio.
Le cavie perfette
Nella prima metà del secolo scorso la sifilide era la malattia sessualmente trasmissibile che preoccupava di più. Non esistevano ancora cure molto efficaci contro l’infezione, e i pochi trattamenti disponibili avevamo spesso pesanti effetti collaterali.
Nel 1932 lo Us Public Health Service (Phs) decise di condurre uno studio per capire l’evoluzione della malattia nei maschi che non avevano mai ricevuto trattamenti, e la scelta cadde automaticamente sulle comunità rurali afroamericane presenti nel sud del paese. Non solo sembrava che qui la prevalenza della sifilide fosse più alta, ma la povertà e la segregazione impedivano che le persone ricevessero una normale assistenza sanitaria. Anche il fatto che si trattasse per lo più di mezzadri analfabeti non guastava: potevano essere facilmente (e impunemente) manipolati una volta guadagnata la loro fiducia.
Dalla città di Tuskegee furono quindi reclutati, con l’aiuto di un’infermiera di colore, 399 maschi malati e 201 sani come controllo. A questi uomini non fu spiegato che facevano parte di un esperimento sulla sifilide (e in cosa consistesse la malattia), sapevano solo che sarebbero stati curati gratuitamente dal bad blood, espressione che nel gergo locale comprendeva non solo la sifilide, ma anche anemia e affaticamento.
Se si presentavano puntualmente agli esami presso il Tuskegee Institute (ora Tuskegee University) oltre a essere “curati” avrebbero ricevuto assistenza medica gratuita e pasti caldi. Nel pacchetto era compresa anche un’assicurazione per coprire il costi del loro funerale, naturalmente dopo l’autopsia.
Uno strano giuramento di Ippocrate
Durante il primo anno dello studio, alcuni uomini ricevettero i trattamenti allora conosciuti per la sifilide, ma poi i medici smisero di somministrarli per passare alla fase di follow-up: i soggetti dovevano essere studiati fino alla morte senza terapie.
È certamente vero che le arsenoterapie allora conosciute erano piuttosto rischiose e poco efficaci, ma trattandosi dell’unica possibilità nessuno le avrebbe negate a un paziente del colore “giusto”. Naturalmente gli uomini dell’esperimento non avevano la minima idea che il trattamento fosse stato interrotto, altrimenti avrebbero perso un incentivo a presentarsi agli esami: continuavano a ricevere dei placebo. Ma non basta: veniva loro detto che anche le dolorose punture lombari necessarie ai medici per monitorare il progresso della malattia facevano parte dello “speciale trattamento gratuito” per il bad blood.
Negli anni ’40 l’esperimento stava continuando, e i medici coinvolti continuavano a non trattare in alcun modo la sifilide degli inconsapevoli malati, e facevano in modo che i soggetti non ricevessero altrove qualche terapia. Ma come fare con la guerra? Nel 1941 esercito aveva arruolato, e quindi visitato, alcuni uomini di Tuskegee, ordinando loro di cominciare i trattamenti antisifilide il prima possibile. Per non compromettere lo studio il Phs comunicò all’esercito i nomi di 256 persone chiedendo che non ricevessero terapia, e l’esercito acconsentì.
In quegli anni era stata anche scoperta la penicillina: il primo (e più famoso) antibiotico è anche oggi il principale farmaco con cui è possibile curare la sifilide. Con la fine della guerra era cominciata la sua produzione in massa: gli uomini di Tuskegee avrebbero potuto essere curati, ma si decise che l’esperimento doveva continuare come stabilito.
Tutta colpa dei giornalisti
Nel frattempo l’esperimento era tutt’altro che sconosciuto alla comunità scientifica: i primi dati erano stati pubblicati nel1934, nel 1936 era uscito il primo studio approfondito, poi cominciarono essere ad pubblicati aggiornamenti a distanza di pochi anni gli uni dagli altri. Nel 1965 finalmente il medico Irwin Schatz, non potendo credere a quello che aveva letto nell’ultimo rapporto pubblicato su Archives of Internal Medicine, scrisse una
lettera di fuoco al primo autore: fu totalmente ignorata e archiviata negli schedari del Center for Disease Control and Prevention (Cdc), che intanto aveva preso il controllo dello studio.
L’anno seguente fu invece il medico Peter Buxtun a presentare i suoi dubbi al Cdc, che ribadì, con l’appoggio delle associazioni mediche, la necessità di ultimare lo studio. Il dottor Buxtun per anni tentò invano di cambiare le cose dall’interno, così nel 1972 decise di parlarne con la stampa. Il 25 luglio 1972 la storia dell’esperimento uscì sul Washington Star, il giorno dopo era in prima pagina sul New York Times: dopo 40 anni l’esperimento terminò, cominciarono le cause legali e il lungo percorso per cercare di riparare l’enorme danno.
Come ricorda il medico Salvo di Grazia (aka Medbunker) nel suo libro Salute e Bugie (Chiarelettere, 2014), il bilancio finale dell’esperimento è drammatico: 28 morti di sifilide, a cui bisogna aggiungere 100 decessi per complicazioni della malattia. Almeno 40 furono le donne infettate, e 19 bambini erano già malati alla nascita. Non stupisce quindi che nel 2006 sia stato definito
“lo studio più infame della storia della ricerca medica americana”

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