8 mag 2017

Trinko: «La lingua slovena ha piena cittadinanza nelle chiese»

I sacerdoti hanno da sempre rappresentato un punto di riferimento insostituibile per la comunità slovena delle Valli del Natisone, tanto più nei momenti di transizione, di crisi e guerre. Lo furono a maggior ragione dopo l’annessione al Regno d’Italia quando, attraverso la politica assimilatrice dei nuovi dominatori, si tentò di minare alle basi le radici culturali e religiose di questa comunità.
Anche in questo difficile momento la popolazione (le rare eccezioni riguardavano impiegati, insegnanti e funzionari pubblici, alcuni amministratori strettamente legati all’apparato del nuovo stato) seguì le direttive dei sacerdoti.
Lo storico sloveno Simon Rutar scrive: «Gli sloveni della Benecia sono molto devoti e sinceramente docili nei confronti della Chiesa cattolica. I sacerdoti hanno saputo popolarizzare la Chiesa e imprimerle un chiaro carattere nazionale. In chiesa la gente si sente come a casa, parla familiarmente con il sacrestano e il sacerdote, fanno domande ad alta voce e fanno le proprie osservazioni sulle prediche, chiedono, ad esempio, perché il celebrante non vuole cantare la messa piuttosto che leggerla.
In chiesa il sacerdote celebra le funzioni in modo familiare: sull’abito indossa la casula e la stola, davanti all’altare si siede su una sedia di paglia intrecciata; la gente invece sta seduta o accovacciata per terra e canta i canti sacri. Don Podrecca racconta che a San Pietro nel pomeriggio del 29 giugno 1885 (festa del Patrono, ndr) mentre eseguivano il ballo nazionale ”Slavjanka“ al suono della ”ziguzajna“ (una specie di violino), al suono della campana dell’Ave Maria, tutti i ballerini, i suonatori e gli spettatori caddero sulle ginocchia e pregarono devotamente.
La gente rispetta profondamente i propri sacerdoti e si prendono cura di loro perché essi rappresentano tutto» (Simon Rutar, Beneška Slovenija, Ljubljana 1899, ristampa anastatica Cividale 1998, pp. 66-67).
Oltre alla inculturazione, diremmo oggi, e popolarizzazione della Chiesa nella comunità slovena delle Valli del Natisone, uno dei punti fermi nell’azione pastorale, ma anche nella vita quotidiana, dei sacerdoti era l’uso della lingua slovena locale. Si trattava di una tradizione ormai millenaria che non fu messa in discussione da nessuno dei dominatori passati per queste terre, tanto meno dall’autorità ecclesiastica che apprezzava la profonda religiosità di questa comunità.
Scrive Ivan Trinko: «Se la lingua slovena non trova protezione nella scuola e riconoscimento dal governo, ha piena cittdinanza almeno in chiesa. Dappertutto si predica in sloveno anche perché non può essere altrimenti. Purtroppo però gli stessi sacerdoti, non conoscendo la lingua slovena letteraria e delle sue regole grammaticali, molte volte alterano anche quanto non è ancora alterato nel nostro dialetto.Tuttavia devo riconoscere che sotto questo aspetto negli ultimi tempi si sono notati dei miglioramenti e non solo perché i preti più giovani almeno un po’ si preparano prima di assumere il servizio, ma anche perché i sacerdoti più anziani stanno più attenti alle regole in modo che alcuni di loro, anche se in dialetto, predicano del tutto correttamente.
Allo stesso modo la dottrina cristiana viene insegnata in sloveno, naturalmente in chiesa, perché a scuola non è necessario. Per le nostre tre parrocchie abbiamo un catechismo particolare che, con l’aiuto del defunto mons. Kociančič di Gorizia [si tratta probabilmente di mons. Štefan Kociančič (1818-1883), docente di Antico testamento e lingue orientali presso il seminario centrale di Gorizia, ndr], è stato redatto e dato alle stampe dal defunto parroco [di San Pietro] Mučič e dal cappellano Pietro Podrecca. Il libro però è usato solo dai sacerdoti e non viene distribuito ai bambini».
Ivan Trinko si sofferma, poi, su alcune particolarità liturgiche, sulle quali, a cavallo del secolo, si aprirà una forte polemica tra i sacerdoti sloveni e l’arcivescovo di Udine, mons. Pietro Zamburlini (cfr. Faustino Nazzi, Storia religiosa della Slavia Friulana dalle origini al 1920, S. Leonardo, http://fauna31.wordpress.com, pp. 256-261). «È interessante — scrive Ivan Trinko — che la lingua slovena venga usata, durante il rito del battesimo, nelle domande rivolte al battezzando e nella recita del Padre nostro e del Credo. Allo stesso modo nella celebrazione della santa messa, subito dopo la lettura del Vangelo in latino, viene fatta anche quella in sloveno. Particolarità ancora maggiore è il fatto che quando il sacerdote comunica i fedeli, recita la formula Domine non sum dignus» nel dialetto sloveno.
«Tutti i canti in chiesa vengono eseguiti in sloveno se escludiamo quelli della messa cantata e il Tantum ergo prima della benedizione eucaristica. Cantiamo durante la messa letta, prima e dopo il Tantum ergo durante la benedizione. Accanto al repertorio abituale abbiamo particolari canti per Natale, Pasqua ed altre occasioni. Canta insieme tutta la gente con grande devozione e profondo sentimento. Le melodie sono generalmente semplici, lente e di un rigoroso spirito religioso. Chissà quando sono nate! Le persone non abituate a questo tipo di canto, rimangono involontariamente incantate. Pensate: un coro misto con centinaia di voci, da quelle più alte di donne e bambini cangianti in tutte le loro gradazioni, colori e sfumature, ai toni potenti dei bassi — il tutto ben amalgamato in piena armonia, senza eccessi e strida, direi quasi a mezza voce, nel segno di una lieve malinconia che spira dolcemente nell’anima. La gente deve avere un cuore di pietra per non percepire il fascino di questo canto» (Ivan Trinko, Beneška Slovenija, Celje 1980, pp. 47-49). E mons. Trinko, da sensibile musicista qual era, sapeva di che cosa parlava e soprattutto conosceva l’anima della sua gente.
La partecipazione alle sacre funzioni è massiccia. In alcune feste (cfr. finestra sotto) sacerdoti e fedeli convergono nelle sedi parrocchiali di San Pietro e San Leonardo, dando vita a cerimonie caratterizzate da profonda partecipazione e devozione.
Pochissimi sono i non praticanti che vengono considerati come non facenti parte della comunità. I pochi anticlericali, concentrati nei fondovalle, subiscono influenze esterne e diventano i prodromi dell’opposizione alla lingua slovena e ai sacerdoti che la difendono e usano nella loro azione pastorale. La loro presenza si fa notare già nel luglio del 1865 in occasione della missione al popolo predicata dal gesuita di Tarcetta, p. Antonio Banchig (1814 — 1891). «Gli avversari al Papa, alla compagnia, alla pietà, e al presente ordine di cose non molto numerosi, ma molto astuti e potenti per la loro influenza — scrive nella sua relazione sulla missione di San Pietro —, eransi dapprima adoperati con vari pretesti a dissuadere quell’ottimo Parroco [don Michele Muzzigh, ndr] dal chiamare un gesuita per la predicazione» e poi «erano financo riusciti a seminar discordie fra’ cappellani e ad alienarli da esso per modo, che questi vinti dall’inganno, dal timore e da umani riguardi aveano risoluto, e parecchi già concertato, di ricusare e l’assistenza e l’opera loro. Da ultimo aveano qua e colà impegnati i loro adepti perché distornassero il popolo dal concorrere alle sacre funzioni, e quando queste ebbero principio, sparsero la voce che durerebbero due soli giorni». Nonostante ciò la missione ebbe grande successo e alla processione penitenziale dalla parrocchiale al cimitero parteciparono più di 6 mila fedeli (cfr. Giorgio Banchig, P. Antonio Banchig, gesuita di frontiera, Cividale 2007, pp. 128-133).
http://www.dom.it/trinko-la-lingua-slovena-ha-piena-cittadinanza-nelle-chiese/

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