9 feb 2018

Le testimonianze dei bambini internati

Gonars
S. PIETRO AL NAT. - ŠPIETAR
 Giovedì, 18 gennaio, le testimonianze scritte dei piccoli internati hanno anzitutto scosso e poi introdotto i presenti alla mostra dal titolo «Ko je umrl moj oče/ Quando morì mio padre», inaugurata al Centro culturale sloveno-Slovenski kulturni dom di San Pietro al Natisone-Špietar. A recitare le testimonianze, davanti a un folto pubblico, sono stati Gianpietro Petricig, alcuni alunni della classe quinta A della scuola primaria bilingue di San Pietro al Natisone e la vicepresidente dell’Istituto per la cultura slovena-Isk, Živa Gruden, che ha anche moderato l’evento. La serata è stata arricchita in musica da due allievi della Glasbena matica. Con disegni e scritti riportati su 26 pannelli, la mostra racconta delle difficili esperienze dei piccoli internati nei campi di concentramento di Gonars, Visco, Monigo e Rab (nel quale, nell’inverno del 1942, è stato registrato il più alto indice di mortalità in Europa). A presentarla a San Pietro sono stati gli stessi autori, gli storici Boris Gombač, Metka Gombač e Dario Mattiussi. Metka Gombač ha spiegato come si sia imbattuta quasi per caso, all’Archivio di Stato di Slovenia, nella cartella coi disegni e gli scritti dei bambini. Su richiesta della professoressa di Venezia Bruna Bianchi si stava interessando a testimonianze di donne ai fini di una ricerca sul ruolo femminile durante la seconda guerra mondiale e, così a Ljubljana ha trovato anche testimonianze di bambini. Alcune di queste, in seguito, sono anche state mandate alla professoressa Bianchi per la pubblicazione. Insieme al Centro isontino di ricerca in seguito si sono trovati a riflettere, nel 2005, su cosa potesse essere adatto organizzare in occasione del Giorno della memoria e la scelta è caduta su una selezione di alcune tra quelle testimonianze. La decisione si è rivelata di successo, perché nei mesi e anni seguenti la mostra ha avuto una forte eco. Il materiale, degli anni 1943 e 1944, ci parla di freddo, maltempo, sete, povertà e fame. Negli scritti i bambini a volte raccontano come nei campi, proprio per i motivi menzionati, abbiano perso alcuni tra i propri familiari o persone più care. Dopo l’8 settembre i bambini rimasti soli sono stati portati da conoscenti e parenti. Nell’ambito delle scuole partigiane, che tra l’altro preparavano i ragazzi a competizioni, già alcuni mesi dopo il periodo trascorso nei campi i maestri avevano reso possibile la redazione di scritti. Il materiale sarebbe sorto così. Secondo Dario Mattiussi la mostra contrasta il diffuso stereotipo, rispondente anche agli interessi degli Alleati, secondo cui gli italiani sarebbero stati «brava gente». Infatti su territorio italiano, per esempio in Etiopia e altrove, campi erano presenti già prima del Ventennio fascista. Erano localizzati lungo le tratte ferroviarie; tutti ce li avevano sotto gli occhi. I campi tedeschi, a ogni modo, erano pensati per un lavoro da schiavi. La maggior parte degli internati è dovuta restare nei campi anche dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Boris Gombač ha richiamato l’attenzione su come la mostra porti alle giovani generazioni ciò che i nonni stessi hanno provato. Finora è stata inaugurata oltre cinquanta volte in svariate località. A portarla a San Pietro al Natisone, dove è stata esposta fino al 2 febbraio, sono stati l’Istituto per la cultura slovena e la sezione dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia «Valli del Natisone», in collaborazione con la galleria d’arte Beneška galerija.
Luciano Lister (Dom, 31. 1. 2018)

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