21 mag 2018

La qualità della vita non dipende (solo) dal reddito


La Benecia inchiodata agli ultimi posti della classifica dell’imponibile medio dichiarato È solo una coincidenza? Non credo. I dati diffusi sulla geografia dell’Irpef – che, si sa, raccontano solo una parte della realtà e che anzi rischiano di portare a letture fuorvianti – lasciano ancora una volta senza parole. Certe tendenze sembrano essersi consolidate, prospettando ulteriori squilibri sul territorio e nella società: i ricchi amano vivere in collina, lontano da traffico e inquinamento, magari in una posizione che gode di un bel panorama (la cosiddetta «migrazione» alla ricerca di «amenity», per es. verso Moruzzo e Repentabor), mentre gli anziani sembrano restare intrappolati in aree marginali che tendono a svuotarsi di umanità e di servizi; e i giovani «emigrano» all’estero alla ricerca di opportunità. In genere è evidente una crisi del ceto medio e una situazione di «non crescita», di stagnazione, che investe tutti i settori di un’economia «matura», che dimostra un’incapacità diffusa a mantenere competitività. Questa condizione caratterizza in particolare le aree in prossimità dei confini, per l’effetto di attrazione che subiscono strutture commerciali e terziarie, come per es. a Gorizia e Tarvisio, ma anche aree urbane e industriali di difficile gestione (nelle quali si nota qualche effetto di counter-urbanization, di «fuga» dalla città). Quindi – per quanto ci riguarda più da vicino – si tratta di effetti del tutto caratteristici che interessano le aree insediate dalla nostra minoranza, che esprimono il ben noto dualismo, con fenomeni di abbandono e impoverimento per le aree slovenofone della provincia di Udine e, al contrario, di attrazione e diffuso benessere per gli sloveni delle provincie di Gorizia e di Trieste. È un fenomeno di diversificazione che – al di là degli esercizi accademici – dipende sicuramente da molte cause, da combinazione di fattori materiali e immateriali, soggettivi e oggettivi, di contesto e di circostanza; ma che è così evidente da interessare sicuramente elementi di cultura e di identità, nel senso più ampio e pratico del termine. Il Judrio sembra dividere due mondi, uno che appartiene a un sistema evoluto e uno che sembra appartenere piuttosto ad un mondo di arretratezza. A questo secondo mondo io stesso appartengo, condividendo con i pochi rimasti in paese tutto il senso di colpa (che del resto è tipico delle minoranze non solo economiche) per non riuscire a dare un contributo perrisolvere una situazione ormai prossima allo spopolamento definitivo. Nessuna sorpresa per chi conosce questi territori, basta attraversare «il» Judrio per avere l’impressione di cambiare continente. Da una parte, territorio ben gestito, agricoltura di qualità, paesaggio ordinato e rilassante (al di là di qualche attività che evidenzia un’estetica un po’ esagerata, si potrebbe dire «californiana») a beneficio dei residenti, ma anche una risorsa per il turismo: segni di benessere, se non di ricchezza diffusa, di una governance che offre e privilegia servizi alle persone, sviluppo di attività economiche di pregio, conciliando tutela e conservazione di valori ambientali e tradizionali – in pratica tutto ciò che caratterizza le aree ad economia avanzata. Dall’altra parte, abbandono e trascuratezza, e una crisi che si evidenzia in molti aspetti del paesaggio, oltre che in una serie di insediamenti che tendono a svuotarsi di umanità, oltre che di economia. Forse non è tutto proprio così, ma l’esperienza ci conferma in questa situazione che, anzi, si manifesta in termini di ricadute sulla vita di tutti e di tutti i giorni, di costi visibili e invisibili che rendono la vita da queste parti a volte insostenibile, che derivano da carenze di servizi pubblici e attività private, economiche o sociali, in genere da un’organizzazione locale che non funziona più. Un fatto che significa costi e problemi che nessuno – neppure il più ricco – può sostenere. Pochi esempi possono rendere l’idea di come la vita di famiglie, individui e imprese sia diventata sempre più difficile: la possibilità di chiedere aiuto a un vicino per aggiustare un recinto o per sorvegliare la casa quando si è in ferie, l’accessibilità ai servizi sanitari – soprattutto per anziani –, l’assenza in paese di un negozio per generi alimentari e altre funzioni essenziali, e così per altre mille circostanze. Si pensi semplicemente alla possibilità che i bambini possano andare da soli a scuola (come succede a Doberdob o a Števerian e in altre comunità ben organizzate), così come a lezioni di danza o di karatè, a piedi o in bus: un fatto che non ha prezzo (lo sanno le famiglie che devono accompagnare in macchina i figli da qualche parte 4 o 8 volte a giorno) in termini di tempo, denaro, fumi di gasolio bruciato, km percorsi, sicurezza. E così per altre mille circostanze; non fa alcuna differenza se siete a Milano centro o a Doberdob: si tratta di servizi di prossimità di valore inestimabile che solo chi vive in una comunità può apprezzare. Una situazione che tende a peggiorare, considerando la situazione di dipendenza ossessiva dall’automobile, l’inesistenza di un serio e conveniente regime di servizi per la mobilità (per es. con abbonamenti «all inclusive», con orari e coincidenze per bus e treni); così anche per sanità, comunicazione (la posta e il postino!)e cultura, carenze che oggi sembrano incredibili, quasi il segno alla regressione a una condizione di Terzo mondo – e di dissoluzione dello Stato; così in genere per le varie questioni di pianificazione territoriale, con le varie amministrazioni che sembrano essere impegnate esclusivamente a fare favori alle varie lobby del cemento e dell’asfalto (rotonde surreali, terze o quarte corsie, svincoli autostradali «faraonici», strade inutili etc. mentre chiudono le mense degli asili!), che drenano risorse pubbliche sempre più scarse, consumando suolo e – paradossalmente – danneggiando a volte definitivamente il sistema di vita locale. E tutto questo mentre una miriade di elementi pregiati di territorio si trova in un penoso stato di degrado e rischia di essere persa irrimediabilmente. Evidentemente la questione del reddito è essenziale e deriva tanto da una buona gestione della «cosa pubblica», di amministrazione e territorio, di tasse e di dazi, che in genere da congiunture, investimenti e cicli di economia globale; ma la qualità della vita non può che dipendere, in queste aree marginali, soprattutto dall’efficienza comunitaria, dall’organizzazione locale, che non può che derivare dal senso di appartenenza che, se manca, non può essere sostituito da nulla. Se la comunità non «funziona», i «costi invisibili» diventano troppo alti, se lo stile di vita diventa insostenibile, qualche cosa che alcuni definiscono involuzione piccolo borghese, over-complacency, crisi di ceto medio o semplicemente pigrizia, nessun livello di reddito può apparire adeguato. È evidente la dimensione «soggettiva» in questo discorso: i costi che derivano dalla mancanza dalla scomparsa di coordinamento sociale, di un senso di identità pratica, oltre che ideale, lo stesso fatto di non accettare il proprio modo di essere non può che portare al «mostro» della crisi, o semplicemente alla povertà culturale, oltre che quella materiale.

Igor Jelen Docente di Geografia economica e politica dell’Università di Trieste (Dom, 15. 4. 2018)

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