24 ott 2017

NUOVE VOCI DELLA POESIA SLOVENA – DI IVAN CRICO

Pigna, trottola, dadi…specchio
Nuove voci della poesia slovena
(Ivan GroharIl seminatore, 1907)
 Le case sono poche, lungo la strada; molte le facciate nude, quasi mai intonacate. I pagliai sui prati verdi, che risalgono i pendii fino a lambire i boschi, qualche mucca libera al pascolo. Entrando in Slovenia si entra, ancora, in un mondo che ripropone, come riesumati dal fondo dell’infanzia, i paesaggi dei nostri primi anni, quando campi immensi, canali, vigneti, isolavano i paesi nel silenzio della luce. Pause di lontananze in cui addentrarsi liberandosi via via in un mondo non più umano, ma fatto di germogli teneri che rigavano la terra umida, di odori d’uva sui tralci ormai matura, di un volo di tortore dal collare sopra ingrigite distese di stoppie allagate. Camminare o andare in bicicletta lungo le strade semideserte voleva dire, innanzitutto, lasciare che quel grumo irrisolto d’illusioni in cui crediamo di riconoscere il nostro io, si disgreghi sfaldato dal fitto andirivieni di luci sulle rogge, richiami di cince, sussurri di porcospini tra l’erba, riflessi aranciati sulle nuvole che ci sovrastano. Così, mentre quello che pensiamo di essere si scioglie come neve al sole, in quell’essere ogni cosa senza sapere mai esattamente cosa, riscopriamo la nostra più vera dimenticata immagine. Al di là ciò che, in noi, ci oscurava. “Cercare è trovare una strada affinché lo splendore possa fuoriuscire dal di dentro”, dice una poesia cinese.
     Per questo, per entrare in questi luoghi, in questo mondo a lungo interdetto, sembra quasi necessario – più che altrove – lasciarsi alle spalle ogni nostra idea preformata: non sarebbe nient’altro che un impedimento, un velo attraverso cui guardare, riflesse, le ombre di quel mondo nuovo che si sta disegnando dall’altra parte.
     In fondo, tra le montagne, Lubiana si dilata sulla pianura.
     Nel cuore di questa bellissima città le cui facciate recano ancora i segni della passata dominazione austroungarica, oggi un ruolo molto attivo e stimolante è ricoperto dalla SOU, l’organizzazione degli studenti universitari, che da qualche anno, sostenuta anche economicamente dai Ministeri per la cultura e l’istruzione, pubblica i testi poetici di alcuni fra i migliori giovani poeti sloveni, come Taja Kramberger, Matjaz Pikalo, Ales Steger e Uros Zupan.
     Poeti, come anche Ales Debeljak, Alois Ihan e Peter Semolic, accomunati da una medesima preoccupazione nei confronti dello stile e per un approccio originale – sconosciuto alla passata poesia di questo paese – ad un sorta di pseudoreligione vicina (come ricorda Michele Obit, poeta che per primo li ha fatti conoscere in Italia) ad una sorta di mistica medioevale.
     Confini, fisici ed ideologici, vanno difatti dissolvendosi, e l’ago sensibile della poesia non poteva non registrare questi cambiamenti. E, se anche in molti luoghi si tenta ancora di erigere nuove barriere, divisioni, ogni tentativo, in questo senso, sembra inesorabilmente nel tempo, se non subito nel nostro tempo, destinato a fallire. Ogni cosa, cancellata la protezione rassicurante di uno spazio intimo, si ritrova esposta, raggiungibile ovunque – e non c’è riparo possibile. Possibilità di difesa. Tutto scorre attraverso tutto ed è in questa condizione di estrema incapacità a definirsi, mantenere un’identità precisa, in questa costante corrosione dei confini tra interno ed esterno, che l’individuo deve muovere i propri passi (1).
     Eppure, anche se attorno tutto sembra muoversi – vista da fuori – la cultura del nostro paese appare per molti versi ancora immobilmente chiusa in sé stessa, autoreferenziale. Una sorta di isola inaccessibile, difesa da argini invisibili ma, in larga parte, ancora invalicabili. E questo, oltre a limitare la libera circolazione di nuove idee provenienti dall’esterno (la cultura di interi paesi è spesso da noi del tutto sconosciuta), rende poco comprensibili i nostri autori all’estero e quindi, di conseguenza, difficilmente traducibili.
     Uscire da questa lunga impasse, da questa chiusura limitante, sembra la cosa più urgente per la nostra cultura e, insieme, per il nostro paese. La conoscenza di quanto accade vicino a noi, per cominciare, può essere determinante per studiare diversi approcci alle problematiche moderne, diversi modi di percepire l’esistente.
     Prima di altri paesi l’Italia, attraverso il Friuli Venezia-Giulia, ha avuto per molto tempo, non sfruttandola appieno, la possibilità di accedere ad un mondo ignoto come quello dei paesi slavi; diventare, anche attraverso la conoscenza di queste culture, una porta verso l’Est, il mondo.
     Dopo anni difficili ad esempio, in cui la libertà d’espressione veniva pagata a caro prezzo, la Slovenia dal ’91 ad oggi, dopo l’indipendenza, ha potuto assistere ad una stupefacente, rigogliosa fioritura di manifestazioni culturali, pubblicazioni, mostre, concerti che hanno, nella città di Lubiana, la loro chiara e fervida capitale. Introvabili, comunque, e inesorabilmente datate le quattro antologie di poeti sloveni contemporanei, a parte qualche sporadica traduzione di nuovi autori come Salamun su “Nuovi argomenti” e “Testo a fronte”, rispettivamente a cura di Edoardo Albinati e Giuliano Donati, le prefazioni e gli accenti critici di Arnaldo Bressan, Livio Guagnini, Jolka Milic, Giacomo Scotti, Giacinto Spagnoletti alle opere di Kravos, Pangerc, Zlobec e pochi altri ancora, si può dire che la Slovenia rimane ancora per noi, in larghissima parte, un continente tanto vicino quanto sconosciuto (2).
     Nel corso del 1998, sempre a cura e con traduzioni di Obit presso l’editore ZTT EST di Trieste è uscita una preziosa antologia, intitolata “Nuova poesia slovena” (3), che colma una grave lacuna nella comprensione di questo fenomeno di certo fra i più vitali ed interessanti nel panorama del mondo poetico contemporaneo. Un’antologia ricca di numerosi testi tradotti per la prima volta in italiano, ma in parte già noti da tempo all’estero, ed arricchita da una splendida e assolutamente indispensabile postfazione di Miran Kosuta in cui, con la solita profondità, questo studioso analizza le vicissitudini della moderna poesia slovena, dal dopoguerra ad oggi, e presenta l’opera di questi giovani autori (tutti nati dopo il 1960) perlopiù sconosciuti nel nostro paese.
     Difatti, a parte il volume di Ales Debeljak Momenti d’angoscia(Napoli, Flavio Pagano editore, 1992), la prima organica presentazione di questi nuovi poeti in Italia risale appena al 1997, con un gruppo di testi inediti apparsi sulla rivista “CorRispondenze” a cura di Michele Obit (4). Altri testi sono stati pubblicati rispettivamente nei preziosi libri Voci dalla sala d’aspetto (5) nati a margine delle letture poetiche nell’incontro internazionale di poesia, musica, arte, danza a Topolò, sulle montagne al confine della Slovenia presso Cividale, e nel volume Di Fiamma e Ombra (6) che raccoglie i testi dei partecipanti ad una rassegna di musica e poesia che si tiene annualmente in un’antica chiesa rinascimentale a Fogliano, nei pressi di Gorizia. Piccole ma attentissime rassegne queste, come anche quella tenutasi a “Zona Centro” a Udine, che hanno avuto il merito di far conoscere per prime di persona, al pubblico italiano, questi autori.
     Ma che cosa, già ad un primo ascolto, distingue la voce di questi autori dai tanti, anche grandi, giovani poeti europei contemporanei? Certamente ciò che più colpisce, in questi testi, è la naturalezza – a noi quasi ignota ormai – con cui questi autori si confrontano con i temi più ardui (e a volte abusati) della tradizione riuscendo, quasi miracolosamente, a creare testi poetici affatto banali. È come se, uscendo dal buio continuo di un lungo inverno, fosse concesso a questi autori di riappropriarsi, per un momento, di una giovinezza negata. E da qui, forse, la mancanza d’ogni timore nell’attingere a piene mani, armonizzandoli nell’onda di un comprensibile entusiasmo, echi simbolisti e beat generation, la tradizione ermetica e Pavese; da qui lo spirare, in ogni verso, di una ventata d’aria nuova che, pur non cancellando le ferite profonde del passato, sembra volgersi con fiducia – fiducia nella potenza trasformatrice della poesia – verso il domani.
     Tutto questo, a differenza della generazione passata, sembra in qualche modo favorito dal continuo sfaldarsi d’ogni residua componente ideologica, per cui questi poeti risultano, rispetto ai loro predecessori, forse ancora più “moderni” (anche nella loro maggiore vulnerabilità) perché in fondo più aperti e privi di preclusioni di fronte ad ogni sollecitazione esterna. Molte esperienze del passato, forse troppo sbrigativamente messe da parte, da Stefane George al Surrealismo, rivelano così, rielaborate in questi nuovi testi, un’attualità insospettabile e potenzialità ancora tutte da scoprire.
     Davanti dunque, all’improvviso, quello che si dischiude è uno spazio vuoto, sfrondato dalle ideologie del passato, nel quale il poeta deve, orficamente, “rinominare il mondo” e riscoprire – come è ricordato nella postfazione – con Schiller la “Lied” dormiente in ogni cosa.
     Difficile indovinare, spenti i naturali e giustificati entusiasmi per una ritrovata libertà d’espressione, quali saranno nei prossimi decenni gli sviluppi di questa poesia. Una naturale vocazione a confrontarsi con l’esterno, a intrecciare continui contatti (favoriti anche dalla approfondita conoscenza delle lingue straniere di tutti questi poeti) con molti autori di tutto il mondo, sembrano comunque sicure garanzie del mantenimento, nel tempo, di una produzione poetica qualitativamente elevata. Si vedrà, se sarà dato vedere.

1 commento:


Il tuo commento è l'anima del blog,
Grazie della tua visita e torna ogni tanto da queste parti , un tuo saluto sarà sempre gradito. *Olgica *

ultimo post

auguri