Era l’estate del 2009, quando Bossi proponeva, durante una festa della Lega, di inserire nei programmi scolastici l’insegnamento dei dialetti, con tanto di test per mettere alla prova la preparazione dei professori su tradizioni e storia delle culture locali. Erano i primi di maggio del 2010, quando su alcuni giornali comparivano indiscrezioni sulle linee guida dei nuovi istituti tecnici (si parla di “competenze in registri dell’italiano contemporaneo, diversità tra scritto e parlato ma anche rapporto con i dialetti”), accompagnate da rinnovate perplessità riguardo la questione dei dialetti.
In quanto studenti di Lettere, studiosi della lingua italiana e qualcuno, perché no, possibile futuro professore, siamo andati ad informarci da chi, direttamente coinvolto o meno nella questione, può darci un parere professionale e aiutarci a capire quanto siano fondati la proposta ed i successivi dubbi.Seguono tre domande, poste ai prof. Motolese e Vignuzzi, docenti alla Sapienza:Così ha risposto il prof. Luca Serianni, autore dei nuovi programmi ministeriali per i licei, alle nostre domande: «L’estate scorsa, la Lega, perragioni di visibilità, aveva proposto l’insegnamento dei dialetti nelle scuole, ma poi l’ipotesi era decaduta. Ovviamente si tratta di una strada non percorribile: si può insegnare una lingua, ma non un dialetto, che non ha alcuna omogeneità. Persino in regioni come il Veneto e la Campania, regioni con una forte connotazione dialettale, non ce n’è uno che si sia imposto. Così accade nelle grandi città, si pensi a Roma o a Milano, dove ormai i dialetti non esistono quasi più: esistono solo un accento romano e uno milanese. Inoltre non bisogna dimenticare i limiti intrinseci nel dialetto: il poeta Raffaello Baldini diceva che “in dialetto si può parlare con Dio, non si può parlare di Dio”: un ambito quindi,solo familiare e affettivo, non adatto per contenuti di un certo livello intellettuale. A scuola si dovrebbe dare più importanza alla lingua in sé: soprattutto per dominarne i vari registri.»
1) Cosa pensa della proposta nelle linee guida del ministero?
Prof.Vignuzzi: Non credo ci sia niente di nuovo, rientra già nelle proposte, negli anni ’90, della Commissione Brocca la quale riguardo ai trienni stabiliva che “lo studente deve essere in grado di correlare le sue conoscenze con altre lingue compresi i dialetti.” È incontrovertibile che ci sia un rapporto tra italiani regionali ed è anche fondamentale il rapporto tra italiani regionali a livello alto, scritto e orale, (Gadda, Camilleri…) e italiano regionale parlato dalla popolazione. I dialetti permeano in effetti tutta la lingua (si pensi a parole come “ciao”o “pizza”) però farli studiare nelle scuole sarebbe impossibile.
I dialetti sono oggetti storici diversi in ogni area culturale, abbiamo tanti dialetti quante aree culturali. Se questo è vero per l’Europa (per esempio in Svizzera c’è un dialetto per ogni cantone), nella tradizione storico-culturale italiana la situazione è differente e più complessa poiché i dialetti si presentano come “lingue delle identità locali”(cfr, E. della Loggia). Da qui nasce un problema sia pratico che teorico. Il problema pratico è che in Italia ci sono circa 10.000 dialetti, se colleghiamo, come la nostra storia impone, identità locali e “comuni”. Il problema teorico è la differenza semantica tra lingua (quella che si può apprendere a scuola) e dialetto che essendo viva e spontanea espressione non formale del parlante è quasi impossibile da insegnare.
Il grande poeta Virgilio Giotti disse al riguardo che “non è possibile parlare dialetto perché è la lingua della poesia”.
Se però si considerano due aspetti fondamentali, cioè l’unicità del caso italiano (che è una grande ricchezza) e l’assenza di unità regionale dal punto di vista linguistico, si può giungere alla conclusione che è bene insegnare l’italiano nelle sue varietà ma non sostituirlo alla lingua principale. L’italiano, tra l’altro, come disse Bruni, è una lingua che nasce senza impero, a differenza di altre che si sono imposte per l’utilizzo a corte: è una conquista del popolo.
Prof. Motolese: In linea generale, un’attenzione verso i dialetti può essere anche positiva.
Ma ogni proposta di integrazione del programma scolastico deve tenere conto del fatto che il numero di ore da dedicare alle materie letterarie non è infinito. Se si aggiunge qualcosa, bisogna avere chiaro dove si toglie. Personalmente troverei sbagliato ridurre le ore di italiano per inserire un’ora di dialetto; sarebbe un passo indietro invece che un passo avanti, da tanti punti di vista. Non è solo una questione di lingua, ma più ampiamente di orizzonte, di cultura. Certo, in alcune zone, una maggiore consapevolezza dell’interazione tra parlata spontanea e italiano può essere d’aiuto. Ma che
il dialetto possa essere realmente d’aiuto per imparare meglio l’italiano mi pare difficile. In ogni caso, non mi sembra che l’attenzione attuale nei confronti dei dialetti nasca da un’esigenza pedagogica; mi pare più un’esigenza politica.
2) Invece di studiare i dialetti, non sarebbe più utile dare spazio allo studio
delle differenze tra italiano parlato effettivamente e quello delle grammatiche
e della letteratura?
Prof. Vignuzzi: Monaci diceva che “bisogna partire da una buona conoscenza del dialetto per arrivare alla lingua”. In realtà non è possibile perché oggi i ragazzi non parlano più il dialetto ma, al massimo, una sorta di “giovanilese”. È necessario invece portare alla parità tutti gli italofoni per permettere loro di esprimersi e di comprendere tutti i testi scritti. Sarebbe difficile studiare il dialetto in chiave linguistica perché siamo in un contesto di neodialettalità (definizione di Mengaldo) basti pensare a De André, al grammelot di Fo (o al De Filippo della traduzione della “Tempesta”in napoletano del ‘600), il dialetto non è usato perché è parlato ma hanno scritto nel dialetto del passato, che hanno studiato sui libri. Si può e si deve invece utilizzare la cultura locale per comprendere come si sia creato il contatto dialetto-lingua nazionale e quali siano i rapporti che intercorrono tra le varietà dei dialetti.
L’insegnamento deve dare la capacità di esprimersi diversamente tra scritto e parlato. La lingua italiana è umanistica, aristocratica e intellettuale. Bisognerebbe dare a tutti gli strati sociali il possesso di una lingua italiana alta; il mio sogno è che tutti imparino ad utilizzare il congiuntivo in modo corretto!
Prof. Motolese: A quanto ne so, un’attenzione al parlato e al suo rapporto con lo scritto è da tempo inserita nelle linee guida del programmi scolastici. Quanto poi questa distinzione sia effettivamente valorizzata durante le lezioni di italiano è difficile dirlo. Credo però che i professori più aggiornati già
lavorino in questa direzione.
Prof. Vignuzzi: Nel senso che ho illustrato prima, no: se per “dialetto” intendiamo la cultura dialettale, lo studio di queste “culture”, nel quadro e nella prospettiva che ci ha insegnato Tullio De Mauro dell’Italia delle Italie, l’ “Italia dei mille (diecimila?) campanili”, diventa un momento organico per un sempre maggiore e migliore approfondimento della nostra identità comune, anzi della nostra unicità’, sia come “unità” sia come “singolarità”.3) L’anno prossimo si festeggiano i 150 anni dell’Unità d’Italia: in tale contesto non appare contraddittorio cercare di fare emergere le differenze e i particolarismi regionali, tramite lo studio dei dialetti, invece di trovare un modo per rendere sempre più agevole, tramite la cultura comune, la comunicazione tra italiani e stranieri?
Prof. Motolese: C’è una contraddizione evidente, che infatti affiora quotidianamente sulle pagine dei giornali. Sinceramente, ho comunque dei dubbi sul fatto che le tendenze al localismo della Lega, o di altre forze politiche, possano realmente incidere sul lungo periodo. O almeno così mi auguro. Mi pare che si tratti soprattutto di una volontà di essere visibili, di parlare al proprio popolo, di sollecitarne le paure. In ogni caso, non avrei dubbi sul fatto che la scuola italiana abbia maggior bisogno di guardare fuori, all’Europa, che non ai suoi particolarismi.
di Silvia Micheli e Violetta Torregiani
Dialetti nelle scuole. Cosa ne pensano i linguisti?
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