17 giu 2015

L’inizio della 1. guerra in Benecia

La rotta di Caporetto dell’ottobre 1917 dimostrerà che uno dei punti più caldi e strategicamente delicati del fronte tra Italia e Austria, che si aprì il 24 maggio 1915, fu quello dell’Isonzo che partiva dal Rombon, scendeva nella valle dell’Isonzo, saliva sul Krasij vrh e il Krn – Monte Nero, per poi attraversare di nuovo l’Isonzo e risalire sulla Bainsizza. Alle spalle di questo fronte gli strateghi italiani avevano approntato tre linee di contenimento per fermare un eventuale sfondamento da parte delle truppe austriache, linee che incidevano come una profonda ferita le Valli del Natisone e del Torre. Alle ore 2 del 24 maggio 1915 una compagnia di bersaglieri ciclisti, partita da San Pietro al Natisone, passò il confine a Stupizza e puntò verso Caporetto senza incontrare resistenza, perché le poche truppe austriache che presidiavano la valle dell’Isonzo si erano ritirate sui monti. Un altro reparto di bersaglieri partendo da Cepletischis (Savogna) raggiunse la valle dell’Isonzo attraverso Luico. Quel giorno don Giovanni Petricig, parroco di San Leonardo, sul «Libro Istorico» della parrocchia annotò: «Alle 4 i nostri soldati, partendo da Jainich alle ore 2, sono già nel territorio austriaco. Alle 16.30 arrivano sul Corada senza colpo sparare perché libero. Tuonavano i cannoni sul versante di Tolmino». La stessa notte nei pressi della località Solarje, in quel di Drenchia, colpito da una fucilata austriaca cadde il primo soldato italiano della grande guerra. Si trattava dell’udinese Riccardo Giusto, dell’8° reggimento alpini Cividale. Lo raccolse e ne celebrò le esequie il cappellano di San Volfango, don Giovanni Guion, nativo di Biacis. L’occupazione da parte delle truppe italiane dell’alta valle dell’Isonzo provocò un’ondata di profughi sloveni che in lunghe file iniziarono ad affluire lungo la valle del Natisone. «Questa povera gente – annotava don Strazzolini nel diario storico della parrocchia di San Pietro al Natisone – ha dovuto sgombrare subito senza essere preavvisata e senza avere i mezzi di farsi trasportare la mobilia e le vesti, le quali furono perdute e le case pure devastate. Capitarono pure a San Pietro al Natisone, su carri del governo, gli abitanti di Serpenizza e Ternova con i loro preti senza portare con sé nulla, tranne gli animali, per andare nella Liguria. Era una vera desolazione a vederli». Nella Slavia la vita quotidiana non era facile: nei paesi erano rimasti anziani, donne e bambini che provvedevano al proprio sostentamento con il lavoro nei campi e nelle stalle. Si calcola che in media per ogni civile ci fossero più di due militari che tenevano tutto sotto controllo e si intromettevano perfino nella vita religiosa delle comunità esigendo che i sacerdoti predicassero in italiano. Già nelle prime settimane del conflitto al cappellano di Topolò, don Giovanni Slobbe, fu ordinato da un giovane tenente di pregare e predicare solo in italiano. I sacerdoti sloveni informarono dell’accaduto l’arcivescovo di Udine, mons. Antonio Anastasio Rossi, che il 14 agosto 1915 in una lettera a don Slobbe tra l’altro scrisse: «Per ragioni insindacabili dall’Autorità Militare l’Arcivescovo di Udine ha approvato che si predichi in sloveno nelle parrocchie di S. Leonardo e S. Pietro al Natisone, come si predica in friulano nel Friuli, in piemontese nel Piemonte ecc. Eccede perciò i limiti della sua competenza codesto Tenente, il quale pretende di comandare nelle cose strettamente ecclesiastiche che dipendono esclusivamente dall’Arcivescovo. Ella quindi ai suoi fedeli continui a predicare come nel passato in sloveno. Salvo se saranno presenti come fedeli soldati di altre regioni d’Italia, per carità verso di loro parli anche in italiano, perché da questi possa essere compreso». Accusati di austriacantismo alcuni sacerdoti furono mandati al confino, altri furono processati e imprigionati come don Luigi Clignon di Erbezzo, don Giacomo Lovo di Azzida, don Pietro Cernotta di Liessa, che morì sulla soglia della canonica al ritorno dal processo presso il tribunale militare di Udine, don Giobatta Cruder di Rodda, don Giuseppe Saligoi di Mersino. Di loro si interessò il vescovo di Padova, mons. Luigi Pelizzo, nativo di Costapiana di Faedis, che in una lunga serie di lettere a papa Benedetto XV denunciò la difficile situazione delle popolazioni civili a ridosso del fronte e la miope strategia militare che mandava al massacro giovani vite umane. È molto probabile che, impressionato e ispirato da questa corrispondenza, papa Benedetto XV nella lettera del 1º agosto 1917 si rivolse «ai capi dei popoli belligenranti» ai quali chiese di risolvere pacificamente le questioni dei confini tra gli stati per «giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage».

 per il testo in sloveno vai a http://www.dom.it/prva-svetovna-vojska-v-beneciji_linizio-della-1-guerra-in-benecia/

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