4 mar 2016

Jolka Milič: «Ho iniziato a tradurre per non leggere più schifezze»

immagine da fb

L’ex maestra d’asilo, che ha fatto conoscere in Slovenia i grandi scrittori italiani, ha compiuto 90 anni in una casa strapiena di libri e ricordi

«Ci vorrebbe un romanzo di 800 pagine per raccontare la mia vita, ma chi poi avrebbe il tempo e la voglia di leggerlo?». Fisico minuto, asciutto ma forte come un tralcio di vite, occhi neri acuti e indagatori, Jolka Milič è una vispa signora con la grinta di una ragazzina. Oggi febbraio compie 90 anni. Abita a Sesana, in Slovenia, a pochi chilometri da quel confine che per lei non è mai esistito. Nonna Jolka, solo in apparenza schiva, è sempre stata una donna di carattere, dotata di vena ironica e graffiante vis polemica. Lettrice accanita, traduttrice, poetessa, pubblicista e critico letterario, è una lavoratrice instancabile, sempre connessa con il mondo («Non spengo mai il computer»). Traduce in sloveno poeti e poesia dall’italiano, dal francese, dallo spagnolo, dal serbo-croato. E viceversa. Una specie di promotrice o, se volete, contrabbandiera dell’import-export letterario. L’appartamento, dove vive da sola, è un deposito di carte e di memorie. Sedie, divano, tavoli e poltrone sono tutti occupati da pile di libri, riviste, giornali, fascicoli, vocabolari e dizionari d’ogni genere. Qualche stalagmite di libri si alza perfino dal pavimento. «Sono superflui, ma per me indispensabili. Tra l’altro ho la sensazione di non essere sola. Mi faccia sapere quando viene, così le farò trovare una sedia libera. Come casalinga, specialmente da quando sono invecchiata, sono un vero disastro, ma chi legge e scrive molto - spiega con un risolino - non pensa tanto a pulire, anche perché potrebbe compromettere l’ordine delle cose, che per altri pare solo disordine». Partiamo dall’inizio. Quali studi ha fatto? «Pochi. Sono nata a Sežana, in un’altra casa, in un’altra Sesana, in un altro regime nell’anno in cui è morto Srečko Kosovel. Eravamo tre figli: Vilemira, la primogenita, io e mio fratello Josip.
Io ho fatto le elementari in italiano, prima a Sesana, le commerciali a Trieste e ho finito gli studi nel ‘47 al collegio magistrale delle Orsoline a Gorizia. Ma ero una discola e a scuola non brillavo. Così i miei genitori decisero che sarei rimasta a casa e fecero proseguire gli studi a mia sorella che era una secchiona, bravissima (studiò a Trieste, ma poi si è sposò e andò a vivere a Milano) e a mio fratello, nato nel 1931, che si è laureato in medicina a Milano nel 1955 ed è diventato un luminare della fisiologia negli Usa e in Canada». E lei che fine ha fatto? «Ero maestra d’asilo, ma non ho mai praticato. Avevo una personalità troppo amletica, piena di dubbi, inadatta per insegnare. Ho lavorato un paio d’anni come impiegata di banca (avevo come collega Tončka Ravbar, la sorella di Kosovel), poi ho dovuto dare una mano a mia mamma Ivanka, che gestiva una grande panetteria in via del Lazzaretto Vecchio, al numero 10. Una via in cui la tristezza sabiana rifletteva davvero anche il mio stato d’animo. Cuocevamo grandi quantità di pane su ordinazione, e tutti gli esuli (erano gli anni del dopoguerra) ci portavano i loro pastoni da infornare. Nel ‘56morì mio padre Jože, mia madre era in difficoltà. Lasciai la mia famiglia (mio marito era un pittore e insegnante) a Sesana, affidai mia figlia (nata nel ‘53) alla sorella che viveva a Milano, e le diedi una mano come cassiera, banconiera e contabile. Nei pochi ritagli di tempo libero, andavo a tutte le conferenze e sempre in cerca di libri di poesia e di autori da conoscere». Per esempio? «Alla Borsatti incontravo spesso Fulvio Tomizza, al quale voglio un bene dell’anima, pur non lesinandogli critiche, per esempio sul ritratto, per me assurdo, che - dopo lo Slataper del “Mio Carso” e prima del Magris di “Microcosmi” - anche lui faceva degli sloveni “dagli zigomi tipicamente mongoli” (in “L’Amicizia”). E, impertinente, gli dicevo: “Guardati allo specchio e chiediti da dove sei venuto, perché sappi che noi ti vogliamo molto bene per la tua bravura di scrittore, ma anche per quella tua faccia de sciavo!”». (...) Nell’epoca della globalizzazione e dell’egemonia dell’inglese, ogni giorno qualche lingua scompare. Lo sloveno, la lingua di un piccolo popolo, per secoli sottomesso eppure indipendente, dove trova la forza per sopravvivere? «Una volta era molto più facile mantenere la propria cultura e la propria lingua, compresi i dialetti, perché si viaggiava poco e la dominazione altrui, le angherie subite, per noi hanno sempre funzionato da collante. Quanto fu stupida, per esempio, la politica dell’Italia fascista e, in quegli anni, odiosa Trieste, rifiutando non gli slavi, ma proprio gli sloveni». È stata dura per gli sloveni... «Da bambina io pensavo che esistesse un’unica lingua, lo sloveno, e credevo che la parlasse tutto il mondo. Finché mio padre non comprò la prima radio, girava la manopola e mi diceva “questo è tedesco, questo italiano, questo francese, questo è inglese...”. Una scoperta che mi distrusse. Io che volevo avere tutto il mondo. Poi da ragazzina pensavo che il nostro linguaggio carsolino, essendo pieno di espressioni triestine e friulane, fosse un dialetto italiano. A scuola ci impedivano di parlare in sloveno, ma, essendoci tra noi anche qualche bambino italiano, ci rimproveravano: “Che compagni senza cuore siete: parlate una lingua gli altri non conoscono!”. Ma al bimbo italiano non hanno mai detto “impara anche tu il loro dialetto”. Così ho cominciato a leggere tanto, di tutto. Imparare le lingue, per noi sloveni, è stata una necessità». Quando ha cominciato a tradurre poesia?«Scrivevo e traducevo per me, perché mi piaceva. E mi ci sono messa con grandissimo impegno, specialmente con Kosovel, quando nel 1965 uscì quel libretto in francese edito da Pierre Seghers. Gli sloveni, allora, non osavano neppur lontanamente pensare che fosse un poeta di statura europea. Ma, se ricorda, anche Svevo deve la sua fama ai francesi... Insomma, leggendo la traduzione fatta da un linguista sloveno, Viktor Jesenik, con Marc Alyn, mi sono detta: “Uno schifo simile saprei farlo anch’io!”. E così ci ho provato. Ho mandato un testo ad Aurelia Gurber Benco”, che lo apprezzò molto e lo pubblicò su “Umana” (dove ho pubblicato anche traduzioni di Zlobec e Salamun). Poi organizzò una magnifica serata su Kosovel a Sistiana e qualche anno dopo, nel 1972, uscì il libro dell’Asterisco di Claudio Reggente, di cui sono diventata grande amica». Gli autori sloveni sono poco noti in Italia. «Anche per l’incapacità di proporsi agli editori italiani. Oggi i tempi sono cambiati e anche in Italia c’è stata una qualche apertura agli autori sloveni: Boris Pahor, poi Alojz Rebula. Ma Pahor è stato a lungo osteggiato in Slovenia dalle avanguardie più che dalla politica. D’altra parte, Tomizza era ritenuto un “narodom zaveden”, un nazionalista e una volta, a un incontro a Maribor, dovetti prendere le sue difese». Renzo Sanson (Il Piccolo, 5. 2. 2016)
fonte http://www.dom.it/wp-content/uploads/2016/03/Slovit-2-febbraio-2016.pdf

3 commenti:

  1. che non mi è mai piaciuta, traduce come se fossi un notaio è le poesie perdono l'anima, la dolcezza, ho letto Kosuta in sloveno e poi in italiano tradotto da Jolka-un disastro, si è persa la poesia, sembra tradotto da un avocato.

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    1. È facile criticare, ma fare il traduttore di poesia è estremamente difficile. Traducendola letteralmente si perde la musicalità ed il ritmo della lingua originale, ma cercando di interpretarla in modo poetico si corre il rischio di sfalsarne il senso e perdere il vero significato che voleva darle il poeta. Tradurre poesia è un umile servizio, da fare in punta di piedi, sapendo bene che ogni traduzione invecchia, mostra dopo alcuni anni le rughe del tempo, mentre il testo originale rimane là, nella sua intatta bellezza. Io ho sempre ammirato Jolka Milič e il suo lavoro. Ha contribuito con le sue innumerevoli traduzioni a far conoscere la nostra poesia, prima quasi sconosciuta al pubblico di lingua italiana. Forse le sue opere potrebbero essere un incentivo ad imparare e conoscere lo sloveno e poter così apprezzare i nostri poeti in originale e non tradotti.

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