1 mag 2017

Salviamo l’agricoltura e lo sloveno

Al giorno d’oggi restare sul territorio della Valcanale, della Val Resia e della Benecia tornando all’agricoltura sembra quasi una scelta controcorrente, ma non lo è per tutti. Francesco Turco ha 33 anni e vive con sua moglie a Cergneu di Sotto (Dolenjena), nel comune di Nimis/Neme. Suo padre è originario della borgata di lingua slovena di Porzus/Porčinj (nel comune di Attimis/Ahten), mentre sua madre viene dal paese di lingua friulana di Ravosa (nel comune di Povoletto).
Puoi parlarci del percorso che ti ha portato a occuparti di agricoltura?
«Di formazione sono perito agrario e laureato in agraria a Udine. I miei contatti con il settore agricolo e primario in generale avvengono già in tenera età – mungevo già a 13 anni – perché la famiglia di mia madre ha una stalla. Tramite mio padre, invece, mi sono immerso nell’ambiente rurale di Porzus, coi boschi e la caccia. Lì ho vissuto con gli anziani del paese, che mi hanno trasmesso parte della loro conoscenza orale, relativa a toponomastica locale, boschi e razze di mucche tipiche del posto. Tutte queste esperienze hanno indirizzato la costruzione del mio futuro lavorativo e nel tempo mi sono indirizzato verso il settore vitivinicolo, facendo esperienza in diverse aziende. Sempre grazie alle conoscenze e alla passione trasmessemi da un anziano apicoltore, mia moglie e io abbiamo deciso di avviare un’azienda agricola per conto nostro, partendo proprio dall’apicoltura. Per ora siamo specializzati nella produzione di miele, con oltre un centinaio di alveari, ma un passo alla volta, vorremmo diversificare l’attività. Al momento, quindi, come attività principale sono dipendente in un’azienda viticola e, finito il lavoro, faccio l’apicoltore, nonché il norcino nel periodo invernale».
Quali lingue parli oltre all’italiano e per quali motivi?
«Parlo italiano, friulano e inglese scolastico».
La generazione dei tuoi genitori parla il dialetto sloveno, mentre tu no. Ci puoi spiegare perché?
«Dal punto di vista se si può dire “etnico” la composizione della mia famiglia d’origine è mista: mio padre parla il dialetto sloveno di Porzus, mentre mia madre friulano. Nella mia famiglia si parlava friulano, ma con me italiano. Io ho imparato il friulano a scuola e dai miei nonni. Non c’è un motivo specifico per cui mio padre non mi abbia insegnato il dialetto sloveno; penso che possa essere ricondotto alla stesso motivo per cui, adesso, la mia generazione non insegna più il friulano ai bambini. Tutti parlano italiano e allora ai bambini si parla italiano. Alla domanda “Perché non parli friulano ai bambini?”, spesso la gente risponde che, altrimenti, i bambini non imparano bene l’italiano ma è un assunto non corretto, perché è risaputo che i bambini che parlano più lingue hanno comunque la capacità di distinguere le parole che, nelle diverse lingue, vengono utilizzate per lo stesso oggetto o per uno stesso concetto».
Ti piacerebbe recuperare il rapporto con lo sloveno o col dialetto sloveno?
«Assolutamente sì, perché lo sento come lingua della mia famiglia. Rispetto alla lingua slovena, possiamo dire che emotivamente lo avverto come un pezzo della mia identità che mi appartiene e che mi è stato tolto».
Cosa potrebbe, secondo te, aiutarti meglio a farlo?
«Dei corsi di avvicinamento con un taglio pratico, dove la lingua sia parlata, più che studiata. La grammatica è fondamentale, ma i corsi vanno intercalati nell’ambiente in cui vengono svolti e adeguati alle situazioni di uso comune che si presentano».
Quali attività o iniziative potrebbero, secondo te, rafforzare l’uso attivo dello sloveno e del dialetto sloveno nella vita di ogni giorno in Benecia, Resia e Valcanale?
«I corsi non bastano. Nell’Europa unita le scuole bilingui non dovrebbero essere l’eccezione, ma dovrebbero essercene una per comune su tutta la fascia confinaria e, prevedendo l’insegnamento anche in tedesco a Tarvisio o a Timau per esempio. Secondo me bisognerebbe partire dalla scuola e, al di fuori, portare avanti un discorso culturale di recupero perlomeno di autocoscienza, come è stato per me; bisogna anche spiegare alle persone che si tratta di un’opportunità, perché il mondo non si ferma a Stupizza di Pulfero e a Passo di Monte Croce Carnico. Al di là si possono praticare commercio e scambi, anche di opinioni e idee».
In che modo le organizzazioni slovene e le istituzioni in generale potrebbero dare il loro contributo?
«Al momento le organizzazioni slovene, anche con la partenza di un corso di sloveno a Porzus, già lo stanno facendo, cercando di tenere vivo quanto meno lo spirito identitario. Da parte delle istituzioni politiche occorrerebbe maggiore impegno concreto ed efficacia. Se la politica, ad esempio, non appoggia l’istituzione delle scuole bilingui o non incoraggia le persone a parlare e recuperare lo sloveno e le altre lingue minoritarie della regione, semplicemente anche attraverso i media, allora non si va molto lontano».
Tornando alla tua attività di agricoltore, per quale motivo hai portato la tua attività proprio a Cergneu?
«Dopo la laurea in agraria, la scelta è stata di rimanere qui. La mia famiglia risiede qui da molto tempo (il nostro cognome è presente dal 1300) e io desidero costruirmi un futuro nel mio territorio di appartenenza. Dovendo cercare casa e sede aziendale, la scelta è stata di individuare una soluzione adatta tra Porzus e Cergneu, che sono i paesi mio e di mia moglie».
In passato l’agricoltura costituiva una voce importante nell’ambito dell’economia della comunità slovena in provincia di Udine, mentre oggi di meno. In che modo le organizzazioni slovene e le istituzioni potrebbero aiutare te e gli altri agricoltori?
«A riguardo, le mie considerazioni sono simili a quelle che valgono per la lingua: lasciare un argomento così importante solo alla buona volontà di pochi diventa una soluzione troppo debole. Non avendo un ruolo decisionale, ma di intermediario tra l’attività agricola e le istituzioni, le associazioni o le organizzazioni di categoria fanno ciò che possono, promuovendo progetti anche transfrontalieri e offrendo servizi a supporto delle iniziative degli agricoltori. Le istituzioni già sanno quali sono i problemi delle nostre vallate e devono capire se li vogliono risolvere o meno. Come battuta di inizio, secondo me, è necessario che le associazioni e gli imprenditori che ancora ci sono, decidano in prima persona di fare massa critica per quanto meno cercare di frenare l’emorragia di persone e capitale umano, andando oltre interessi personali e campanilismi fuori luogo in un mondo globalizzato».http://www.dom.it/resimo-kmetijstvo-in-slovenscino_salviamo-lagricoltura-e-lo-sloveno/

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