19 feb 2018

Ma non perdiamo la speranza

Davanti al quadro demografico, sociale e economico delle Valli del Natisone, del Torre, di Resia e della Valcanale, notiamo come in tutte le Alpi difficilmente troviamo casi così catastrofici come nelle Prealpi del Friuli-Venezia Giulia. Certo, l’emigrazione contraddistingue diversi luoghi periferici delle Alpi occidentali, degli Appennini e altri ancora, ma in nessun altro posto ci sono dati così negativi come qui da noi. Il fenomeno dello svuotamento di interi paesi e valli non si riscontra altrove, se non in casi particolari.
Le proiezioni demografiche sono impietose e, di questo passo, c’è il rischio concreto che la comunità slovena scompaia da questi luoghi nel giro di una o due generazioni. Forse sopravvivrà un qualche gruppo folcloristico o una qualche élite culturale che metterà artificialmente in scena l’esistenza della minoranza. Ma questo, chiaramente, non è e non può essere ciò che vogliamo. In alcune località vicine della zona alpina, in Italia, Slovenia e Austria, la situazione è abbastanza diversa. Pensiamo al Trentino e all’Alto Adige/Südtirol, che sono tra le regioni più ricche di tutta Europa: questo fatto smentisce i luoghi comuni di svariati ambienti politici ed economici, stando ai quali in Italia non è possibile fare niente, le tasse sono troppo alte ecc.
Abbiamo alle spalle l’efficace ricostruzione post terremoto del 1976, il tramonto del sistema realsocialista, la nascita dello stato sloveno, l’integrazione europea e la caduta del confine. Non c’è più, nemmeno, un particolare contrasto antisloveno, come poteva essere in passato. Ma i paesi sotto il Matajur, il Canin e il Mangart continuano a svuotarsi. Perché succede? La questione è così complessa da non rendere possibile una risposta.
Finché le comunità paesane erano vive, era possibile anche fare qualcosa, ossia pensare a alcuni interventi; ora, però, siamo sotto un punto critico e, spesso, sul territorio non c’è nessuno cui proporre un qualche programma di rivitalizzazione.
Le motivazioni materiali e immateriali di tale emigrazione vanno ricercate nell’irresistibile attrattività dei centri urbani della pianura, nel desiderio di un migliore impiego, nel senso di subalternità della cultura contadina a quella borghese di centri come Udine, Cividale, Tarcento, Tolmezzo che si è diffuso in secoli di dominio veneziano.
Oggi i paesi sembrano ancora più vuoti di quanto lo siano di fatto, perché lì, nelle case, le persone ci dormono solo, nel restante tempo sono in continuo movimento. Secondo i sociologi, finché nei paesi è possibile incontrare signore anziane che chiacchierano, bimbi che giocano, adulti che impiegano il tempo libero curando gli orti, la comunità è ancora viva.
Oggi, però, tutti passano il tempo guardando lo smartphone o la televisione e non camminano più nemmeno fino al negozio o all’osteria, perché ci vanno in auto. La vita è radicalmente cambiata, ma questo non è avvenuto all’improvviso. Nella teoria e nella pratica è stata commessa una serie di errori economici e politici. È sorta e si è radicata la convinzione che tutto si salverà con interventi pubblici, che, però, non hanno dimostrato un’effettiva efficacia.
Noi, gli esperti – o almeno dovremmo essere tali – riflettiamo, ricerchiamo, raccogliamo dati, predisponiamo scenari e elaboriamo proposte di interventi politici e economici. Ma non se ne esce. Nei decenni scorsi abbiamo fatto molto e ci sono stati, evidentemente, molti errori. Sulla base di tali esperienze, oggi, almeno sappiamo cosa non si deve fare in futuro.
Dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo, un rapporto diverso col territorio, una diversa politica economica. Soprattutto dobbiamo renderci conto che, finché il contadino resta in paese… qualcosa ci sarà! Senza agricoltura, e senza lavoro sulla terra, non vengono meno anche altre attività, artigianato, turismo, uso delle risorse naturali e tradizionali, ovvero viene meno quella disciplina economica su cui scommettono in molti per porre un argine al crollo demografico.
Quali sarebbero le soluzioni? Possiamo parlare del rafforzamento di società civile, stato sociale, comunità locali, attività di associazioni … Di primaria importanza è, però, non perdere la speranza, né il coraggio, visto che, nell’attuale era postmoderna e postindustriale, le cose sembrano poter cambiare velocemente. Le esperienze ci mostrano come “niente” possa all’improvviso diventare “tutto”.
Infatti, ciò che per noi locali rappresenta una catastrofe – l’abbandono, l’isolamento, la lontananza, la perifericità ecc. – a volte può essere un motivo di attrazione per alcuni visitatori. Specie per gli amenity migrants – immigrati che traggono felicità da un ambiente con tali caratteristiche, probabilmente perché esausti per l’inquinamento e per il caos delle grandi città.
Per determinati gruppi di persone, pensionati, pendolari (ammesso che ci siano mezzi pubblici appropriati), famiglie con bambini, ma anche artisti, scienziati o manager, gli insediamenti abbandonati sono, così, assai invitanti. Per esempio, solo lo scorso autunno sono giunti da noi studenti e ricercatori delle università di Innsbruck, Norimberga e di Kent State (negli Stati Uniti d’America), che sono rimasti entusiasti delle indagini nei paesi abbandonati, studiati in realtà come esempio di cattiva pianificazione e gestione dello spazio. Poco tempo fa un regista inglese ha presentato a Udine il suo film «New wild» , sulla Val Aupa vicino a Moggio Udinese, che ha ricevuto numerosi premi a festival di tutto il mondo. E ci sono molti altri casi simili.
Semplicemente, i nostri paesi sono diventati qualcosa di esotico. Attraggono gente che nell’area prealpina cerca un’estetica dell’abbandono, del rudere, della rovina ecc.
Ovviamente tutto questo resta, per noi, un incubo. Qualunque iniziativa, anche se piccola, può contribuire alla ripresa – sia essa l’organizzazione di una raccolta museale, il suonare la fisarmonica in paese, un nuovo campo da giochi… Soprattutto, però, dobbiamo trovare una nostra strada, ovunque essa si snodi. Bisogna essere consapevoli che ogni attività può marcare l’inizio di un cambiamento.
Igor Jelen  professore di Geografia economica e politica all’Università di Trieste
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