6 set 2018

La ‘buona scuola’, la penna rossa e quel progetto di scuola bilingue


Nata a Socchieve, Silvana Schiavi Fachin si è laureata in lingue e letterature straniere a Milano, specializzandosi poi negli Stati Uniti ed in Inghilterra.
Docente di didattica delle lingue moderne all’Università di Udine, è stata deputato indipendente di sinistra per Udine dal 1987 al 1992, presentando tra l’altro la proposta di legge ‘Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche’. Ha pubblicato articoli, saggi, rubriche riguardanti i problemi dell’educazione linguistica su parecchi giornali e riviste, ha realizzato un progetto pilota di educazione bilingue (friulano-italiano) in alcune scuole materne statali del Friuli, elaborato dall’Università di Udine con la sovvenzione della CEE. È stata presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio regionale della lingua e della cultura friulane. Ha promosso la creazione del Centro Internazionale sul Plurilinguismo dell’Università di Udine.
Si occupa della creazione di materiali didattici multilingui e multimediali....

“Già, la ‘buona scuola’ voluta da questo governo. La cosa più preoccupante di questa riforma riguarda proprio le lingue. La prima uscita della ministra Giannini è stata: provvederemo all’apprendimento precoce della lingua inglese. Perché? Pochi insegnanti conoscono davvero l’inglese, il ministero offre a chi dà la disponibilità 50 ore per un’attività tra le più difficili, perché occorre conoscere bene una lingua e poi conoscere la lingua dei bambini. C’è questa ‘corsa all’inglese’ senza preoccuparsi di come viene insegnato, chi lo insegna e per quanto tempo. La seconda osservazione è sul fatto che si vuole affidare l’insegnamento  a docenti in madrelingua. In primis così non si dà lavoro ai nostri giovani, e poi l’essere semplicemente un parlante nativo di una lingua non si traduce automaticamente in un insegnante professionalmente competente. Si parla poi della modalità CLIL (Content and Language Integrated Learning), che prevede l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica. È un metodo nato in Europa per creare nelle scuole, soprattutto superiori, uno spazio maggiore per altre lingue. Ma è pensato per l’insegnamento di contenuti, non per il perfezionamento di una certa lingua.”
Insomma, motivi per segnare con la penna rossa questa riforma ce ne sono anche qui da noi.
“In un documento di politica linguistica avevo già tratto delle conclusioni applicate alla nostra regione. Dicevo che era necessario sviluppare la formazione linguistica dei cittadini sulla base dell’analisi del contesto in cui viviamo, quello dove sono presenti quattro lingue. Ai bambini da noi non interessa imparare l’inglese per diventare un manager, ma apprendere una lingua per un contatto, per curiosità, per fare esperienze concrete. Il principio fondamentale è che uno dalla propria vita precoce a quando arriva alla terza media dovrebbe imparare le lingue, lingue che si devono nutrire vicendevolmente.”
Quando le ho scritto anticipandole che le avrei chiesto anche dei suoi contatti con la scuola bilingue di San Pietro al Natisone, mi ha risposto che furono ben più che contatti…
“Eh sì! Tutto è nato da un incontro casuale, insegnavo a Buttrio assieme a Paolo Petricig, ci avevano affidato i ragazzi del Collegio friulano. Ero reduce da un soggiorno negli Usa, avevo vinto una borsa di studio, avevo visitato esempi di educazione bilingue, i ghetti di Los Angeles, l’università per messicani-americani, una riserva indiana. Quella è stata la molla: anch’io facevo parte di una riserva indiana. A Paolo raccontavo queste cose, lui per conto suo stava lavorando per poter avere una scuola nelle Valli del Natisone dove si insegnasse lo sloveno. Mi chiamò ad alcune riunioni, anche tese, qualcuno pensava fosse un’idea destinata a fallire. Alla fine Paolo ci riuscì e mi affidò un progetto didattico che era diverso dall’insegnamento nella sola lingua slovena. Si chiama ‘immersione parziale’. Iniziammo con i bambini dell’asilo, per 15 giorni lo sloveno al mattino e l’italiano il pomeriggio, poi viceversa. Il progetto comportava anche l’equazione ‘una persona una lingua’.
Ma lei aveva già sperimentato questo metodo, vero?
“Avevo fatto un esperimento di trilinguismo a Coja di Tarcento, nel dopoterremoto: in friulano, italiano ed inglese. Con il professor Nereo Perini avevamo predisposto un progetto pilota per il friulano, dovevo trovare asili disponibili a questa esperienza: li trovai a Treppo Grande ed a Gagliano di Cividale. Tornando alle Valli, con Paolo ci incontrammo con tutti i circoli didattici, ma allora bastava che una persona, una famiglia fosse contraria, ed il progetto non passava. Alla fine Paolo decise di partire con la scuola privata. Seguivo la cosa dal Parlamento, la documentazione spariva continuamente…”
È un modello esportabile, quello della scuola bilingue?
“A Sauris qualcosa è stato fatto con la lingua di origine tedesca, anche con pochi bambini. Per un periodo ad insegnare era una maestra di Ruda che non la conosceva, e furono i bambini ad insegnargliela. Ci sono maestre ‘storiche’ che hanno fatto cose bellissime, ad esempio Marisa Comelli a Faedis. Lì c’è però continuità didattica, in altre situazioni no. La mancanza di continuità è quasi la regola, purtroppo.”
E poi ci sono le leggi.
“Per la 482 ho fatto io la dichiarazione di voto alla Camera, leggendo tra l’altro una poesia di Zannier in friulano. Il testo è un compromesso, alla fine è stata introdotta l’adesione delle famiglie, sembra quasi che si tratti di una questione religiosa, di libertà di coscienza.”
Tornando all’insegnamento bilingue, lo sa che nelle Valli del Torre il progetto è stato bloccato perché non si è voluto includere le scuole di Lusevera e Taipana nell’ambito dell’Istituto comprensivo bilingue di San Pietro?
“Ma la scuola bilingue deve essere un punto di riferimento, deve esserci continuità con un’esperienza che è un unicum nella nostra regione!”
Tra le tante lingue di cui si parla spesso ci si dimentica della lingua propria dei bambini. Lei di recente ha ideato, e realizzato con l’Arlef, un cofanetto di carte dove mostra oggetti e cose in tre lingue, in friulano, inglese ed italiano.
“Ho cercato di offrire uno strumento didattico che parli ai bambini con gradualità, passando da semplici parole per quelli più piccoli a delle poesie. Mi piacerebbe presentare questo lavoro anche agli insegnanti della scuola bilingue, può essere un sostegno per chi in fondo tende sempre a proporre ai piccoli lo stesso materiale didattico. Ora spero di farne anche una registrazione, perché le lingue vanno soprattutto ascoltate.http://novimatajur.it/cultura/la-buona-scuola-la-penna-rossa-e-quel-progetto-di-scuola-bilingue.html

1 commento:

  1. La ‘buona scuola’, la penna rossa e quel progetto di scuola bilingue

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