23 gen 2020

Così ho ricominciato a parlare in sloveno

Un’avventura iniziata 40 anni fa, le trasmissioni radiofoniche Rai in lingua slovena, anno in cui dopo la laurea a Torino, ho cambiato lavoro, dopo quattro anni di insegnamento in altrettanti comuni confinanti con la Jugoslavia di allora. Per la tesi di laurea avevo studiato da vicino, sul territorio, un problema che allora – ed ancor più oggi – si rappresentava cruciale per la sopravvivenza della comunità slovena valligiana. «Problemi di identificazione in bambini sloveni della provincia di Udine» era il tema delle mie ricerche teoriche e sul campo. Assunto nell’Istituto sloveno di Ricerche-Slovenski raziskovalni inštitut, mi aspettava il compito arduo di riappropriazione del patrimonio linguistico, culturale ed identitario che in cinque lustri di studi italiani si era offuscato e in qualche modo mascherato. Si è trattato di un percorso accelerato di deassimilazione e di riconquista dei valori tramandatimi dalla mia famiglia e dalla mia gente. Tuttavia del limitato patrimonio linguistico dell’infanzia mi rimaneva comunque la competenza passiva, in quanto comprendevo perfettamente la nostra variante linguistica locale, ma ben più difficile mi riusciva la competenza attiva, quella di poter esprimere compiutamente il mio pensiero, anche quello della banale quotidianità. È stata quell’«avventura », la radio Rai in lingua slovena, con cui ho iniziato a collaborare da subito, con le rubriche in lingua locale Pod Matajurjam e Nediški zvon a costringermi settimanalmente a recuperare l’uso della lingua materna nella preparazione delle trasmissioni radiofoniche. Parrà strano a qualcuno, ma ho seguito un procedimento inverso a quello normale per riappropriarmi del materiale linguistico adeguato al compito assunto. Usavo il vocabolario sloveno-italiano e viceversa per trovare le parole che spontaneamente non mi venivano in mente; mi bastava il suggerimento, la radice dei vocaboli della lingua slovena standard per ricondurli al dialetto in uso nell’ambiente nostrano. Non dal dialetto alla lingua, ma dalla lingua al dialetto, scoprendo così la reale ed effettiva vicinanza e consonanza della lingua letteraria slovena con quella usata in famiglia e nell’ambiente valligiano. Alla faccia di chi affermava, l’incomunicabilità tra di esse, il presunto snaturamento e la scomparsa della variante linguistica più debole e meno strutturata. Rimaneva, quindi, implicito il valore sociologico e psicologico dell’uso, il più diffuso possibile, della lingua locale slovena proprio al fine dell’acquisizione della lingua standard, ovviamente più idonea ad una comunicazione efficace ed adeguata ai tempi. Credo che questo sia stato, e tale rimanga, lo scopo delle rubriche Rai accennate sopra. Non ho contato quante volte sono andato personalmente in onda in questi 40 anni tra l’iniziale Pod Matajurjan ed il Nediški zvon, ma potrei farlo riesumando dai cassetti i manoscritti ed i file accumulati negli anni nelle memorie digitali. Non mi interessa affermarmi tra coloro che possiedono più materiale letterario, più prosa dialettale slovena valligiana, tuttavia, spero di poter lasciare ai posteri una consistente testimonianza sociolinguistica quando, anche il nostro dialetto farà la fine ingloriosa cui le lingue minoritarie sono destinate. Mi piacerebbe sapere che qualche giovane locale possa seguire il mio percorso ma, oggi potendolo, con una conoscenza perfetta della lingua madre standard di riferimento. Perché, e questo va riaffermato con forza, la nostra variante slovena locale potrà tentare una qualche sopravvivenza solo se aiutata dalla forza e capacità comunicativa della lingua madre cui è indissolubilmente legata. Ma non basta per questo la sola conoscenza scolastica dello sloveno standard; non in un ambiente così rarefatto di interazioni tra le generazioni, di scarsissimo scambio linguistico e valoriale tra i nonni ed i nipoti, tra genitori di estrazione linguistica e figli. Non c’è da meravigliarsi che in casi frequenti l’uso della lingua slovena degli alunni si limiti all’ambito scolastico con scarsissime possibilità di interlocuzione con i portatori del lessico locale, e che di conseguenza da questi ultimi venga etichettata ed avvertita come estranea o addirittura come straniera. Ricordo quanto io insistessi, già dai primi anni della mia collaborazione nell’Istituto di ricerca, nelle trasmissioni, nel piccolo periodico del Circolo Studenci/Sorgenti, sulla necessità di non interrompere nella scuola bilingue il flusso tra la variante locale e lo sloveno da manuale. Oggi, non solo nel nostro caso, gli psicologi stanno riscoprendo il valore fondamentale del linguaggio famigliare, paesano, immediato e carico di valenze non solo semantiche ma soprattutto affettive. La scuola, infatti, è solo una delle cosiddette agenzie di socializzazione, anche se di fondamentale importanza, ma lo sono la famiglia, lo sport, il gruppo dei pari, l’ambiente fisico ed umano circostante, senza dimenticare, purtroppo spesso nefasta, l’influenza dei social. Forse è tardi per riprendere in seria considerazione, oggi, l’importanza dei dialetti, delle varianti linguistiche che sono la fonte primaria della comunicazione spontanea ed immediata, senza tuttavia nulla togliere al valore del plurilinguismo per coloro che intendono cavarsela nella complessità del sistema comunicativo odierno. Riccardo Ruttar
 (Dom, 15. 11. 2019)SLOVIT

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