4 set 2015

SLAVIA: Il collettivismo degli antichi slavi. Una propensione naturale al socialismo?

di Matteo Zola
Leggere il passato con le categorie moderne è sbagliato, almeno nella ricerca storica. E’ la politica che usa il passato piegandolo a suo uso e consumo. Parlare dunque di proprietà collettiva, di vita comunitaria, di mutuo soccorso delle comunità slave del passato non deve spingere a facili conclusioni per quanto riguarda il presente. Cercheremo quindi di mostrare sommariamente quali erano i caratteri “collettivisti” della società tradizionali slave rispondendo infine alla domanda: la loro è una propensione naturale al socialismo? Domanda che si sono fatti in molti, da Marx in poi.
La proprietà privata, un’imposizione esterna
Il lessico slavo attesta la presenza, fin dai tempi remoti, di una organizzazione territoriale comunitaria fondata sulla collettivizzazione delle terre: detta opole in Polonia, obcina in Boemia, verv’ nella Rus’ di Kiev, mir in Russia, zupa o zadruga nel Balcani. La Russia e la Serbiasono i paesi dove queste comunità tradizionali si sono conservate fino ai tempi moderni, mentre nei paesi slavi a stretto contatto con l’influenza (o il dominio) tedesco, la proprietà privata ha progressivamente fatto breccia. Già nell’XI° secolo il monaco Helmond, nella suaCronaca degli slavi, racconta come i duchi tedeschi che conquistarono le terre dei polabi (nell’attuale Polonia) li costrinsero a coltivare “ciascuno il proprio campo” (agrum suum), a testimoniare come la proprietà privata sia giunta agli slavi come prodotto esterno. Era questa infatti la differenza sostanziale tra lo ius slavicum e lo ius teutonicum, il diritto slavo e quello germanico.
Le strutture sociali antiche si sono conservate di più laddove il potere politico congiurava al mantenimento della società tradizionale, con i suoi privilegi e obblighi. La Russia zarista e l’impero ottomano sono stati tra i paesi più conservatori in tal senso. Ecco perché la Serbia, la Bosnia e la Russia sono tra le aree in cui, ancora fino all’Ottocento, la pratica collettivista era diffusa.
La zadruga nei Balcani
La zadruga era la struttura famigliare ed economica diffusa nei Balcani meridionali. A livello economico significava lavoro fatto in comune e possesso in comune dei beni. A livello famigliare era una associazione domestica guidata da un membro della famiglia (non necessariamente il più anziano) scelto per le sue qualità. La “scelta” lo rende un istituto flessibile e “democratico”. Non una rigida istituzione patriarcale, dunque, ma una comunità in cui il “capo” (lo starechina) non poteva decidere da solo né impegnare la comunità domestica senza averla prima consultata. Lo scrittore serbo Janko Veselinovic (1862-1905) descrive nelle sue novelle la vita della zadruga: “Entrate in casa sua [della donna] e vedrete che non c’è niente di personale. La nuora non poteva dire ‘questa è la mia chioccia, il mio tacchino, la mia oca’, nessuno osava proporre di dividersi la lana, la canapa o il lino. Insieme li preparavano e ammucchiavano. Poi, dal mucchio, ognuno prendeva quel che serviva”.
La differenza tra lo “starechina“, il capo della zadruga, e il domacin, il capofamiglia, era tutta nel principio di autorità: il primo si rifaceva a un consiglio di famiglia, poteva essere sostituito e il gruppo poteva anche sciogliersi. Il secondo era il pater familias, padrone della moglie e dei figli, unico decisore delle sorti della famiglia. Due modelli antitetici di società che, talvolta, convivevano.
In Russia il mir e l’artel’
In Russia il “mir” era la veste amministrativa della comunità rurale. Un’istituzione puramente economica che consentiva, al suo interno, la presenza della famiglia patriarcale. Il “mir” nasceva per gestire collettivamente i beni della comunità, che poteva riguardare uno o più villaggi. L’amministrazione zarista incentivò il “mir” poiché le consentiva di interfacciarsi con entità singole da cui era più semplice esigere le tasse: questo portò alla perdita di spontaneismo e autogestione del “mir” che però conservava il principio di uguaglianza economica interna: ogni membro possedeva in relazione alle sue necessità, le terre o gli armenti non erano i suoi ma gli erano affidati dalla comunità in relazione con i suoi bisogni.Se, ad esempio, il numero di componenti della famiglia fosse calato, il “mir” avrebbe ridotto le terre e il bestiame a lei destinati.
L’artel’ era invece l’associazione temporanea di operai o artigiani che alloggiavano insieme per periodi limitati e in relazione a un lavoro da svolgere terminato il quale dividevano fra loro i profitti. Il lavoro era suddiviso durante assemblee giornaliere. Il buon andamento dell’artel’discendeva dalla certezza egualitaria che la suddivisione del lavoro e la distribuzione dei proventi si portava dietro.
Il collettivismo sovietico
All’indomani del colpo di stato bolscevico, nel 1917, l’istituzione dei kolkhoz andava a ricalcare il modello del mir. La dottrina sovietica vedeva nei contadini il “naturale spirito socialista del popolo russo“. Eppure il modello collettivista sovietico fu energicamente rifiutato dai contadini russi. Perché?
Perché il “mir” non escludeva l’individualismo, la gestione collettiva non impediva di beneficiare di quanto prodotto. Nel “mir” individualismo e sentimento comunitario convivevano. Il kolchoz privava invece il contadino del beneficio della “roba”. Lo scrittore russo Solochov, nel romanzo Terre dissodate (1932) descrive la disperazione dei contadini costretti a entrare nel kolkhozy“Tutti uccidevano le bestie, quelli che si erano iscritti al kholkoz […] correvano voci: ‘Bisogna abbattere, non è più roba nostra”. 
Il “mir” e la zadruga sono stati riferimenti costanti del pensiero socialista e dei movimenti agrari che associavano il progetto rivoluzionario alla comunità rurale. Ma la proprietà collettiva di queste istituzioni era uno strumento di conservazione, di più: era la possibilità di autogestione, e quindi di libertà e sussistenza, a fronte della scarsità di libertà individuali dello stato autoritario. Lo stesso Marx individuò nel “mir” la “cellula del sistema capitalistico” da cui non poteva che svilupparsi uno stato liberale. E per questo la rifiutava. Engels, in una lettera a Marx del 18 marzo 1852, scriveva: “E ci verrà propinata nuovamente quella vecchia panzana panslavista che consiste nel trasformare in comune la proprietà comunale degli antichi slavi e nel far passare per comunisti nati i contadini russi”.
Sono dunque gli slavi naturalmente portati al socialismo? La risposta sembra essere negativa. Anzi, il collettivismo tradizionale degli slavi è, secondo Marx ed Engels, contrario al comunismo. Occorreva quindi estirparlo. E con buona dose di realismo il socialismo sovietico – e in misura minore quello jugoslavo – lo estirparono conservando l’antico nome di mir ezadruga per istituzioni che più nulla avevano a che vedere con il collettivismo delle origini. Oggi nulla sembra essere sopravvissuto di quell’antica radice e, a ben vedere, è questo uno dei danni più grossi che il socialismo realizzato ha fatto alla cultura slava. 
Mikula SeljaninovičIl mitico aratore Mikula Seljaninovič, eterno simbolo del rapporto dei contadini russi con la loro terra, compare oltre le colline. A ideale completamente del precedente, per quanto pervaso di toni più luminosi,  anche questo dipinto appartiene alla serie Bogatyrskij friz.
fonte http://bifrost.it/SLAVI/Museo/Roerich-3.html
Mikula Seljaninovič, 1910.
Tempera su tela. 203 x 494 cm.
Museo Russo di Stato, San Pietroburgo (Russia).

1 commento:

  1. SLAVIA: Il collettivismo degli antichi slavi. Una propensione naturale al socialismo?

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