 |
10 maggio 1876/ 11 dicembre1918) |
Quest'anno ricorre il centenario della morte di Ivan Cankar importante scrittore e poeta sloveno.Per questa ricorrenza molte istituzioni slovene in Italia hanno programmato degli eventi speciali.
Cankar ‹zàṅ-›, Ivan. - Scrittore sloveno (Vrhnika 1876 - Lubiana 1918). Condusse una misera esistenza; come scrittore lottò contro quel che gli pareva la grettezza piccolo-borghese dei suoi compatrioti e per un ideale di giustizia sociale e di bellezza (il racconto Hlapec Jernej in njegova pravica "Il servo J. e il suo diritto", 1907; il dramma Lepa Vida "La bella V.", 1912). Superate le iniziali posizioni naturalistiche e satiriche, si andò raffinando in un soggettivismo simbolico (Podobe iz sanj "Immagini dai sogni", 1917).
da http://www.treccani.it/enciclopedia/ivan-cankar/
Cankar e le storie di animali
di Maria Bidovec
LA CIVETTA
Era di sabato pomeriggio. Il sagrestano e il
chierichetto avevano suonato le campane a festa:
tornando dalla chiesa, lungo la strada passarono
da noi. Il sagrestano stringeva tra le mani che parevano zampe- una grande civetta,
che
di quando in quando sbatteva furente
le pesanti ali, cercando di graffiarlo con gli artigli
d’acciaio. Era un bell’animale, ma lo sguardo
dei suoi rotondi occhi infossati era spaventoso,
pieno di odio celato e furioso, di odio, disprezzo
e spregio per gli uomini, per il mondo
e per Dio, di odio e disprezzo per la vita, il giorno
e il sole; in quella fiamma giallo cupo delle
strette pupille c’era come una consapevolezza
molto profonda, quella delle cose ultime, al cui
cospetto l’uomo diverrebbe di pietra. Una consapevolezza
che va molto oltre la tomba, fino al
nero abisso che deride sghignazzando tutto il
miserabile mondo intero attuale.
Comprammo quella civetta dal sagrestano
per tenerla in casa, come altrove si tengono i
pappagalli.La mettemmo in una grande gabbia,
dal fondo coperto di fieno. Attraverso la
porticina, passando, riuscì ancora a beccare
la mano del sagrestano, tanto che cominciò ad uscirgli del sangue. Poi rimase ferma, silenziosa
ed immobile, dentro la gabbia, gli occhi incavati
nascosti sotto le grigie sopracciglia corrugate,
il becco giallo affondato sul petto. Se qualcuno
si avvicinava e scuoteva la gabbia, quasi non si
muoveva, soltanto gli occhi si dischiudevano a
metà per un istante, e da essi balenava quell’odio furioso, profondo, indomito, che anche nella
prigionia non conosceva nè rassegnazione ´ nè paura. Mi ricordai di quel Vanek che sghignazzava
sotto la forca, tanto che lo sentivano fino
in strada.
Per la prima notte la mettemmo in una piccola
cameretta vuota accanto alla mia stanza.
La cameretta era buia, aveva solo un
angusto abbaino rotondo con una finestrella
impolverata.
In quel periodo c’erano delle splendide notti
primaverili. Da noi in collina, nei nostri lidi solitari
tra frutteti e boschetti di abeti, la primavera
si annuncia molto prima, con molto più calore e a gran voce che non nella valle. Nelle
notti silenziose par di sentire la vita che si risveglia;
voci misteriose, come dalle profondità della terra stessa, frementi inquiete tra i rami,
un grido improvviso, come un anelito ardente
che viene da lontano... e tuttavia un silenzio
così infinito che si potrebbero udire le stelle del
cielo.
Mi coricai e spensi la candela. Nel dormiveglia
mi sembrava ancora di vedere davanti a me
due cupi astri gialli; poi più nulla. D’un tratto mi svegliai tremante e mi misi in
ascolto. Era come un’eco distante, si perdeva
in lontananza... qualcosa di terribile, disperato,
un grido di morte. Dalla cameretta si sentì la risposta; per tre volte di seguito si udì un urlo,
tagliente, furioso, non di chi chieda aiuto ma
di chi gridi vendetta. Vi fu un gran fracasso, un
battere sulla gabbia, la quale vacillò più volte ed infine si rovesciò. Non più dalla chiesa, ma già molto vicino, dal noce o dal melo, rieccheggiava
uno strillo lungo, strascicato, che a tratti scuoteva
tutta la notte, facendola fremere dall’orrore.
Un pianto selvaggio, furioso, minaccioso.
E tuttavia nel profondo c’era nascosto in esso
qualcosa di morbido, di doloroso. Dalla cameretta
venne subito la risposta: si udì un urlo per
tre volte di seguito, tagliente e duro come una
lama di coltello, e la gabbia per la seconda volta
si rovesciò con gran fragore. Mi sembrò di `
sentire un battito d’ali pesanti proprio davanti
alla finestra, e il cuore mi si strinse per un timore
ignoto. Solo, ancora mezzo addormentato,
nel silenzio della notte, rabbrividii. “Ora,
ora è vicinissima a te quella vita oltre la morte, è piena di quella consapevolezza sconfinata che
sghignazzando schernisce l’uomo e Dio, la primavera
e la morte!”. Un grido sussultò verso il cielo, un grido nè di uomo nè di civetta, forte da far tremare le stelle. Qualcosa si abbattè contro la gabbia con tutte le forze, una seconda
volta, una terza. Nella cameretta si udì un urlo,
la gabbia continuava a rovesciarsi con fragore.
Ascoltavo pieno di orrore: una vita sconosciuta
stava accanto a me, avrei potuto toccarla con
mano, parlava un suo linguaggio terribile che io
però non comprendevo; e tutti i segreti, tutte le ultime cose stavano in quelle voci soffocanti e minacciose; sentivo.
Di colpo tutto tacque. Un silenzio affaticato,
stantio, un silenzio di tomba. La primavera, timida,
era ammutolita, tra i rami non c'era più alcun fremito, le stelle tacevano.
La mattina dopo entrai nella cameretta; nel
buio, due occhi gialli mi guardavano con
scherno e cattiveria.
“La civetta maschio sbatteva contro l’abbaino!”,
disse la padrona di casa. “Mettiamo
la femmina dall’altra parte, così prenderemo
anche il maschio!”.
Per l’intera giornata la civetta se ne stette in
gabbia silenziosa, immobile, indipendente; se
appena appena dischiudeva un po’ gli occhi, da
essi balenava uno scherno malvagio.
La sera mettemmo la gabbia dall’altro lato,
nella stanza dove dormiva il servo. Lì c’era una
grande finestra, abbastanza ampia per le ali di
una civetta, e il servo la spalancò. Tutto fu silenzio fino alla mezzanotte. Già stavo per assopirmi, quando fui colto da un brivido
di freddo; accesi la candela e guardai l’ora;
era mezzanotte in punto.
E allora si sentì da una grande lontananza un
verso prolungato e cupo; l’intera notte si risvegliò e si mise in ascolto. Non avevo paura, ma nel dormiveglia tremavo e mi balenò un pensiero: “Che passi oltre, che se ne stia lontano...
al di là della morte!”. Si avvicinava: mi pareva di sentire lo sventolio di forti ali; un urlo piangente,
fragoroso, maligno e doloroso fendeva la
notte. Il mio cuore si strinse, ammutolì: ammutolirono
tutte le cose, dalla terra al cielo, e
tutte le cose stavano in ascolto, tremanti e con
lo sguardo fisso per lo stupore. Non c’era più nulla, nè la terra nè il cielo, nè le stelle nè il cuore dell’uomo... solo un urlo da un abisso senza
fondo, un urlo tagliente, spietato, che penetrava
nell’anima. Per tutta la notte, fino al
mattino.
La mattina dopo, il servo entrò in cucina. Era accigliato, aveva dormito male.
“Quella bestia non la voglio più... mettetela dove volete!"Cos’è successo?". `
“Niente! Il vento ha chiuso la finestra, e quella
tutta la notte ci si è scagliata sopra da far pietà, fino al mattino... E poi se anche non fosse per questo, mettetela da qualche altra parte...
quella morte!”.
La terza notte ponemmo la gabbia in cortile,
davanti alla stalla. Sul fieno mettemmo per la
civetta della carne, perchè non morisse. Tutta la notte si sentiva echeggiare come un pianto e
uno sghignazzo, come un dolore e uno scherno,
si udiva svolazzare intorno alla chiesa, andare
di qua e di là tra i rami; la notte di primavera non era più nostra; qualcosa di estraneo, di nero, era penetrato in essa da un’altra notte, da
una notte dell’aldilà... Già prima dell’alba tutto tacque di colpo, all’improvviso. Un silenzio terrificante
mi si posò sul petto e mi addormentai sfinito.
La mattina dopo venne il servo.
“E' morta!”. “Come morta?”.
Nella gabbia giaceva la civetta, non si riuscivano
a distinguere nè gli occhi nè il becco, tutto era nascosto e sepolto in un grande ciuffo folto
picchiettato. Questo ciuffo era cosparso di goccioline
di sangue, come coralli rossi. Accanto
c’era il corpo morto di un ratto, ma la sua testa
era come spezzata da una tenaglia. Tutti e
due, civetta e ratto, furono buttati dal servo a
far concime.
Ogni notte, a mezzanotte, si fa sentire, terrificante, un canto funebre. Ali pesanti svolazzano
intorno alla chiesa, tra i castagni e i noci. In
quel grido prolungato non c’è solo odio, c’è un dolore profondo, un rimprovero che batte sul
cuore come una martellata.
“Che cosa avete fatto?”.
Alla cieca, l’uomo si era insinuato in una vita
sconosciuta ed era divenuto assassino.
da http://www.esamizdat.it/rivista/2008/1/pdf/cankar_trad_eS_2008_(VI)_1.pdf