Un fazzoletto di terra ai margini del Paese. Periferico, quasi dimenticato come spesso accade alle zone di confine. Eppure uno spazio dove, per decenni, si è consumata la storia e dove la gente comune ha dovuto imparare ad abitarla. Una porzione di quel nostro confine orientale – tra Friuli/Italia e Jugoslavia/Slovenia – è oggi oggetto di un’importante ricerca volta ad indagare il mutamento della sua percezione. Si tratta di un territorio di 470 chilometri quadrati, comprendente 16 Comuni, dove risiedono tre comunità di lingua slovena, identificate dal termine Slavia Friulana e accomunate da vicende storiche comuni: la Val Resia/Rezija, le Valli del Torre/Ter e del Natisone/Benečija. «National Borders and Social Boundaries in Europe: the case of Friuli» è il titolo della ricerca che ha vinto un finanziamento del Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica. Prestigiose le realtà partner: l’Institut de Hautes Ètudes internationales et du Développement di Ginevra, l’Università di Lubiana (Dipartimento di Etnologia e Antropologia culturale), l’Università degli Studi Udine (Dipartimento di Lingue e Letterature, Comunicazione, Formazione e Società) e la Binghamton University State di New York. Respiro internazionale dunque per il progetto che però ha un’anima tutta friulana. A idearlo, infatti, sono stati Alessandro Monsutti – direttore del Département d’anthropologie et de sociologie du développement di Ginevra, nato in Svizzera da genitori friulani originari di borgo Aprato di Tarcento –, e Stefano Morandini, antropologo visuale friulano e ricercatore sul campo per l’Institut de Hautes études internationales et du développement. Proprio Morandini ha iniziato – da gennaio 2017 – a raccogliere interviste e materiale documentale, l’indagine durerà tre anni, «La Vita Cattolica» lo ha intervistato per capire come sta andando il progetto.
Morandini, cosa vi ha spinto verso questa ricerca?
«Nel caso di Alessandro Monsutti, sicuramente le radici, di origini tarcentine ha respirato in famiglia la questione. Nel mio caso l’interesse è professionale, da 15 anni lavoro sulle comunità slovenofone. Ad accomunarci l’antropologia, in particolare quel filone di studi che si chiama “border studies” che si occupa della narrazione dei confini nel mondo, un qualcosa che ci sarà sempre».
La nostra è una zona di confine che come tutte è caratterizzata da una “marginalità” rispetto all’Italia, ma al tempo stesso è stata al centro della storia.
«Marginalità perché l’Italia finisce lì, innanzitutto questo ha innescato una forte “conservatività”, ci sono tre varietà linguistiche che, nonostante il fascismo e le politiche di italianizzazione sono sopravvissute. Oggi, come noto, c’è anche una scuola bilingue. Non solo. Si tratta di comunità molto vivaci dal punto di vista culturale, anche se la demografia non gioca certo a loro favore. Ci sono associazioni attivissime, soprattutto la musica è un veicolo importante della propria identità, non a caso sono numerosi i cori».
Politiche di italianizzazione che si sono innestate su una realtà complessa.
«Decisamente, il confine è una zona grigia. Questa è la prima volta che una ricerca si svolge in parte in Benečija e in parte in Slovenia, a cavallo del confine. Fino ad oggi ognuno si era limitato alla propria parte. La nostra logica di “scavalcare” è legata alle pratiche di quello che si faceva quotidianamente finché la politica non si è messa di mezzo. Era normale avere amici e parenti “dall’altra parte”. Un esempio: da Drenchia si andava a seppellire i morti a Volče, una delle tante pratiche osmotiche legate al confine».
Nella vostra ricerca voi parlate di trasformazione del confine in frontiera.
«Quando parlo di politica intendo i nazionalismi. Il confine è quello che permette il contrabbando, è quello che consente di sposarsi, di andare a prendere la carne, di portare il caffè. La frontiera nasce da quello che è successo negli anni Cinquanta con Tito e la Jugoslavia da una parte e noi dall’altra: abbiamo cioè “fatto fronte”, il confine è diventato una frontiera che non si poteva varcare. Non dimentichiamo che in quegli anni si schieravano i carri armati in vere e proprie prove di forza».
Che cosa ha determinato per le popolazioni che abitavano quelle aree?
«Hanno dovuto convivere con una “temperatura sociale” costantemente alta. Un sentore reciproco che ha minato i rapporti tra paesani. C’era il controllo dell’esercito, ma, in maniera strisciante, anche quello silenzioso e clandestino di organizzazioni come “Gladio” che facevano attività di informazione sulle persone. C’era il timore dell’annessione alla Jugoslavia, questo alimentava il sospetto verso slavi e comunisti che, dunque, non erano considerati veramente italiani. Gli esempi sono innumerevoli: qui gli insegnanti non li mandava il Ministero dell’Istruzione, ma quello dell’Interno; le pratiche di nazionalizzazione poi erano quotidiane, i bambini che parlavano sloveno venivano multati».
L’impatto è stato anche economico.
«Certo. Le servitù militari sono state per i contadini un limite fortissimo. Non parliamo poi dell’industrializzazione mancata. A San Pietro si è tentato negli anni Ottanta di avviare delle fabbriche a capitale misto, italiano e jugoslavo, esperimenti che sono falliti in poco tempo. Tutto si è quindi spostato verso Manzano che ha fatto da attrattore per chi viveva nelle valli. Questo ha significato un progressivo spopolamento in un’area che aveva già vissuto il dramma dell’esportazione di manodopera in Belgio nelle miniere, in cambio del carbone».
Veniamo alla ricerca, in concreto come procedete?
«Essendo una ricerca di antropologia politica facciamo delle interviste qualitative, di cui mi occupo io, su due livelli: il primo riguarda chi ha avuto responsabilità amministrative, militari o ruoli all’interno dei partiti. Il secondo è quello delle persone comuni che hanno storie normali a cavallo del confine».
Ad esempio?
«Banalmente persone che si sono sposate, ma c’è anche chi è scappato stracciando i documenti. Ecco, raccolgo tutte queste storie che danno anche conto di una migrazione che dura da sempre. Poi siamo interessati a ogni genere di fonte visuale, quando entriamo nelle case, la prima cosa che chiediamo è se hanno filmati o foto, anche se, in quest’area, c’erano ovunque cartelli – anche fino a Nimis o Tarcento – che vietavano di girare video o anche solo fare uno schizzo del panorama. Si trattava di una zona Nato, uno scacchiere politico internazionale. Molti fatti non li conosciamo, il ruolo stesso della Jugoslavia ancora oggi non è definito».
Dove viene conservato questo materiale?
«Questo è un aspetto importante. In Svizzera c’è un dibattito sulla conservazione dei dati sensibili. Il materiale viene dunque caricato su un portale che però è accessibile solo e soltanto al Fondo nazionale svizzero e a chi svolge ricerca in questo ambito, dunque non divulgato. Non dimentichiamo che in alcuni casi si tratta di testimonianze drammatiche».
Le persone si raccontano volentieri?
«Rispetto ad altre zone del Friuli dove ho fatto ricerca, direi proprio di no. Esistono una paura e una diffidenza quasi naturali nei confronti di chi viene da fuori. È il risultato più drammatico di un “lavorio” che è stato fatto nei decenni. Molti sono restii, altri dicono soltanto alcune cose e c’è anche chi di parlare di confine non ne vuole proprio sapere. Paura e diffidenza sono state instillate ad arte e sono diventate un sentimento quotidiano che ancora oggi resiste».
Morandini, cosa vi ha spinto verso questa ricerca?
«Nel caso di Alessandro Monsutti, sicuramente le radici, di origini tarcentine ha respirato in famiglia la questione. Nel mio caso l’interesse è professionale, da 15 anni lavoro sulle comunità slovenofone. Ad accomunarci l’antropologia, in particolare quel filone di studi che si chiama “border studies” che si occupa della narrazione dei confini nel mondo, un qualcosa che ci sarà sempre».
La nostra è una zona di confine che come tutte è caratterizzata da una “marginalità” rispetto all’Italia, ma al tempo stesso è stata al centro della storia.
«Marginalità perché l’Italia finisce lì, innanzitutto questo ha innescato una forte “conservatività”, ci sono tre varietà linguistiche che, nonostante il fascismo e le politiche di italianizzazione sono sopravvissute. Oggi, come noto, c’è anche una scuola bilingue. Non solo. Si tratta di comunità molto vivaci dal punto di vista culturale, anche se la demografia non gioca certo a loro favore. Ci sono associazioni attivissime, soprattutto la musica è un veicolo importante della propria identità, non a caso sono numerosi i cori».
Politiche di italianizzazione che si sono innestate su una realtà complessa.
«Decisamente, il confine è una zona grigia. Questa è la prima volta che una ricerca si svolge in parte in Benečija e in parte in Slovenia, a cavallo del confine. Fino ad oggi ognuno si era limitato alla propria parte. La nostra logica di “scavalcare” è legata alle pratiche di quello che si faceva quotidianamente finché la politica non si è messa di mezzo. Era normale avere amici e parenti “dall’altra parte”. Un esempio: da Drenchia si andava a seppellire i morti a Volče, una delle tante pratiche osmotiche legate al confine».
Nella vostra ricerca voi parlate di trasformazione del confine in frontiera.
«Quando parlo di politica intendo i nazionalismi. Il confine è quello che permette il contrabbando, è quello che consente di sposarsi, di andare a prendere la carne, di portare il caffè. La frontiera nasce da quello che è successo negli anni Cinquanta con Tito e la Jugoslavia da una parte e noi dall’altra: abbiamo cioè “fatto fronte”, il confine è diventato una frontiera che non si poteva varcare. Non dimentichiamo che in quegli anni si schieravano i carri armati in vere e proprie prove di forza».
Che cosa ha determinato per le popolazioni che abitavano quelle aree?
«Hanno dovuto convivere con una “temperatura sociale” costantemente alta. Un sentore reciproco che ha minato i rapporti tra paesani. C’era il controllo dell’esercito, ma, in maniera strisciante, anche quello silenzioso e clandestino di organizzazioni come “Gladio” che facevano attività di informazione sulle persone. C’era il timore dell’annessione alla Jugoslavia, questo alimentava il sospetto verso slavi e comunisti che, dunque, non erano considerati veramente italiani. Gli esempi sono innumerevoli: qui gli insegnanti non li mandava il Ministero dell’Istruzione, ma quello dell’Interno; le pratiche di nazionalizzazione poi erano quotidiane, i bambini che parlavano sloveno venivano multati».
L’impatto è stato anche economico.
«Certo. Le servitù militari sono state per i contadini un limite fortissimo. Non parliamo poi dell’industrializzazione mancata. A San Pietro si è tentato negli anni Ottanta di avviare delle fabbriche a capitale misto, italiano e jugoslavo, esperimenti che sono falliti in poco tempo. Tutto si è quindi spostato verso Manzano che ha fatto da attrattore per chi viveva nelle valli. Questo ha significato un progressivo spopolamento in un’area che aveva già vissuto il dramma dell’esportazione di manodopera in Belgio nelle miniere, in cambio del carbone».
Veniamo alla ricerca, in concreto come procedete?
«Essendo una ricerca di antropologia politica facciamo delle interviste qualitative, di cui mi occupo io, su due livelli: il primo riguarda chi ha avuto responsabilità amministrative, militari o ruoli all’interno dei partiti. Il secondo è quello delle persone comuni che hanno storie normali a cavallo del confine».
Ad esempio?
«Banalmente persone che si sono sposate, ma c’è anche chi è scappato stracciando i documenti. Ecco, raccolgo tutte queste storie che danno anche conto di una migrazione che dura da sempre. Poi siamo interessati a ogni genere di fonte visuale, quando entriamo nelle case, la prima cosa che chiediamo è se hanno filmati o foto, anche se, in quest’area, c’erano ovunque cartelli – anche fino a Nimis o Tarcento – che vietavano di girare video o anche solo fare uno schizzo del panorama. Si trattava di una zona Nato, uno scacchiere politico internazionale. Molti fatti non li conosciamo, il ruolo stesso della Jugoslavia ancora oggi non è definito».
Dove viene conservato questo materiale?
«Questo è un aspetto importante. In Svizzera c’è un dibattito sulla conservazione dei dati sensibili. Il materiale viene dunque caricato su un portale che però è accessibile solo e soltanto al Fondo nazionale svizzero e a chi svolge ricerca in questo ambito, dunque non divulgato. Non dimentichiamo che in alcuni casi si tratta di testimonianze drammatiche».
Le persone si raccontano volentieri?
«Rispetto ad altre zone del Friuli dove ho fatto ricerca, direi proprio di no. Esistono una paura e una diffidenza quasi naturali nei confronti di chi viene da fuori. È il risultato più drammatico di un “lavorio” che è stato fatto nei decenni. Molti sono restii, altri dicono soltanto alcune cose e c’è anche chi di parlare di confine non ne vuole proprio sapere. Paura e diffidenza sono state instillate ad arte e sono diventate un sentimento quotidiano che ancora oggi resiste».
Alessandro Monsutti e Stefano Morandini interverranno – lunedì 20 agosto alle 21 ai Colonos di Villacaccia di Lestizza – alla serata «Provis viertis di culture furlane»nell’ambito della rassegna culturale «Avostanis».
*articolo pubblicato sul numero 32 dell’8 agosto 2018 del settimanale diocesano di Udine «La Vita Cattolica» (qui la pagina in pdf).
**foto in evidenza, Collio sloveno, di Alessandro Coccolo.
Quella nostra vita di confine
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