4 set 2018

Benecia rubata alla sua gente

 dal Dom del 31 agosto 2018

PROGETTO TRIENNALE
del prestigioso istituto svizzero in collaborazione con gli atenei di New York, Lubiana e Udine
Benecia rubata alla sua gente Indaga l’Iheid di Ginevra
Larissa Borghese 
È incentrata sul mutamento della percezione dell’ex confine tra Friuli/ Italia e Jugoslavia/Slovenia la ricerca «National Borders and Social Boundaries in Europe: the case of Friuli» (Frontiere nazionali e confini sociali in Europa: il caso del Friuli), finanziata dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e frutto della collaborazione tra l’Institut de Hautes Etiudes internationals et du Developpement di Ginevra, l’Università di Lubiana (Dipartimento di etnologia e antropologia culturale), l’Università degli Studi di Udine (dipartimento di Lingue e Letterature, Comunicazione, Formazione e Società) e la State University di New York a Binghamton.
Abbiamo chiesto di illustrarci il progetto triennale, iniziato nel gennaio 2018, ai suoi due promotori ed esecutori: Alessandro Monsutti, direttore del Département d’anthropologie et de sociologie di Ginevra, nato in Svizzera e il cui padre è originario del Tarcentino; Stefano Morandini, antropologo visuale friulano, ricercatore del l’Institut de Hautes Etudes Internationales et du Développement di Ginevra, che da quindici anni si occupa delle popolazioni slovenofone del Friuli.
Interesse e professionalità, il ritorno alle radici friulane e la visita qualche anno fa alla mostra fotografica di Riccardo Toffoletti sui paesi della Slavia friulana hanno fatto scaturire nei due antropologi l’idea di questa ricerca, che ha come territorio di indagine le Valli del Natisone, del Torre e Val Resia, l’area denominata «Slavia friulana/Benečija», posta a ridosso del confine. Le cui popolazioni nei secoli sono state vittime di un eccesso di Stato, di controllo.
Un’area condizionata dalle servitù militari, che toglievano agli abitanti la sovranità del loro territorio, frenandone lo sviluppo agricolo e industriale.
Scopo dell’indagine è anche trovare una risposta alla domanda «Cosa fa lo Stato alle popolazioni di frontiera? » e come viene messo in moto dallo Stato il processo di marginalizzazione specialmente in questi territori, che sotto la Repubblica di Venezia e l’Impero austro-ungarico godevano di una certa libertà in ambito politico, economico e culturale.
Con l’avvento delle politiche di italianizzazione sotto il regime fascista prima e negli anni del dopoguerra poi, hanno assistito all’irrigidimento del confine. Un confine antico che negli ultimi cento anni ha visto modificare la sua valenza politica e dagli anni ‘90 in poi è stato oggetto di un notevole cambiamento.
La ricerca si sviluppa attraverso un centinaio di interviste, realizzate su due livelli: istituzionale (persone che hanno operato in politica e nell’associazionismo) e testimonianze di vita quotidiana, fatta a volte di paura, ma anche di formalità.
«Raccogliamo testimonianze, fonti visuali, super 8, fotografie, tutte le cose che possono aiutare a raccontare », afferma Morandini, che ci tiene a sottolineare che «i dati che raccogliamo e conserviamo non verranno
divulgati direttamente, ma resteranno proprietà dell’istituto e del fondo». E il confine, l’assimilazione subita per decenni, hanno lasciato il segno. Lo si avverte nella naturale diffidenza e paura verso chi viene dal di fuori.
Da qui l’invito dei due antropologi a collaborare rivolto a quanti hanno qualcosa da raccontare per dare respiro ad un progetto internazionale, che in futuro si prefigge di coinvolgere anche l’alta valle dell’Isonzo.
Quale percezione generale dell’ex confine con la Slovenia emerge dalle interviste finora realizzate?
Morandini: «La percezione da un lato è che basta poco per tirare indietro la macchina del tempo. Si sta un attimo per innescare un ritorno agli anni della guerra fredda - dall’altro che c’è collaborazione attraverso progetti Interreg e uno sguardo alla Slovenia dettato da maturità e forte dinamicità. Il futuro però è condizionato dal calo della natalità, che è un problema generale, e su questo dovrebbe essere fatto un ragionamento politico».
Monsutti: «Mi colpisce il fatto che questa memoria molto dolorosa e vivace non sia stata affrontata a livello pubblico in ambito regionale e nazionale. E colpisce l’altissimo livello di non conoscenza di questa realtà nel pubblico italiano. È giusto preservare i ricordi, ma nello stesso tempo vogliamo lanciare un dibattito pubblico sulla non memoria di questo passato, sul fatto che a livello più ampio questa realtà sia stata messa da parte. Anche perché la consapevolezza di quanto è accaduto in passato può portare ad affrontare e superare il pregiudizio, che è ancora molto forte».
Il prodotto finale della ricerca sarà in primo luogo un libro etnografico basato sulle osservazioni e sulle interviste, in secondo luogo un documentario che offre un viaggio nel tempo attraverso le immagini. «I montaggi del documentario saranno concordati con le comunità, diventeranno un elemento di dibattito, e poi il prodotto finito sarà costruito insieme alle persone. Presentare infatti delle memorie registrate alle comunità e raccogliere le idee fa parte di un modo di lavorare dell’antropologia», sottolineano i due studiosi. Il documentario verrà presentato in Slovenia, in Italia, in Svizzera su canali tematici e a New York, dal momento che un’università americana è partner del progetto. Sarà, inoltre, utilizzato in conferenze di antropologia.


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