7 nov 2019

1969- 2019. Dove abbiamo sbagliato?


                            Dom oktobra 1969
Osservando oggi la situazione della Slavia, ci prende una sensazione di sconforto, tanto che viene spontaneo chiedersi dove, quando, chi, perché siamo arrivati a questo, dove abbiamo sbagliato. Un fatto ancor più doloroso se si pensa che altre realtà comparabili hanno avuto ben altro destino.
Alcune di queste domande, che ancora oggi attendono una risposta, in realtà erano già state enunciate nel 1969, mezzo secolo fa, uno dei vari anniversari che quest’anno passano sotto silenzio: una petizione al presidente della regione «a statuto speciale», di fresca istituzione, che il Dom di settembre 1969 riporta, e che rappresenta, se non un punto di partenza, un interessante riferimento per cercare di capire che cosa è stato fatto e che cosa è ancora da fare.
Vale la pena per un momento di tornare sull’argomento. Si tratta di un’elencazione di «richieste urgenti » per sostenere le «genti slovene» del Friuli, il cui «cammino storico è diverso da quello dei confratelli delle Provincie di Gorizia e Trieste». Un documento, possiamo dire retrospettivamente, ingenuo, ma anche attuale nella sua ingenuità, che si rivolge alle istituzioni, in un periodo di consolidamento della costituzione democratica, e di avviamento di un processo di decentramento,
permeato da certezze keynesiane (cioè di fiducia nell’efficienza nell’intervento del «pubblico»). Una combinazione che sembrava premettere a uno sviluppo «lineare», con un ruolo che le istituzioni avrebbero potuto svolgere in qualsiasi ambito della società, della cultura  e della territorio: una soluzione per tutti i problemi.
Il documento individua concretamente una serie di obiettivi, per rendere accessibili alla minoranza funzioni e servizi dai quali la stessa era rimasta fino ad allora di fatto esclusa; questo essenzialmente tramite la mediazione di istituzioni dell’amministrazione, della formazione e dell’economia, che prefigura un sostegno strutturale dal “centro” verso le varie forme di aggregazione sociale.
Questo in modo concreto, elencando per es. assunzione di impiegati negli uffici pubblici che sappiano esprimersi in sloveno, l’istituzione di corsi, scuole, ore di insegnamento per diffondere l’uso dello sloveno in ogni tipo di istituto, dalla scuola materna all’università.
E così anche per il sostegno alle industrie, lo sviluppo di attività per «dare occupazione» nelle «vicine valli», sviluppo turistico e sostegno alle aziende contadine, e anche rimboschimento, regolazione idro-geologica, gestione di pascoli e lavorazione della frutta. Tutti questi elementi vengono sistemati in una sequenza di «piani» e «programmi» (in un’epoca in cui il «piano generale di sviluppo», il «programma», il «piano stralcio» sembrava potessero tutto). Questo sullo sfondo di una certa idea di autonomia regionale che trarrebbe giustificazione proprio «dalla presenza della minoranza slovena» (una sorta di epocale «battesimo» civile per la stessa Regione).
In realtà, come è facile dire oggi, un atteggiamento «naïve», da principianti della tutela della «minoranza», e di ingenua fiducia nel funzionamento istituzionale. La petizione, infine, pretende che «nessuna persona fisica e organizzazione, pubblica o privata, tenti di frapporre ostacoli di qualsivoglia natura all’aspirazione di sviluppo » della stessa minoranza.
C’è anche qualche traccia della solita auto-commiserazione, che tanto danno fa e continua a fare a tutti noi (quelle delle «genti slovene» sono le zone più «depresse e più sottosviluppate della Regione») e che accomuna spesso le genti della periferia montana. Comunque il tono, sebbene preoccupato, è fiducioso in una evoluzione e carico di aspettative.
In realtà (siamo nel 1969) il disastro era già in atto: di lì a poco spopolamento e abbandono avrebbero causato l’irreparabile, rendendo evidente la crisi che allora era solo latente e che avrebbe presto provocato il crollo dell’intero mondo rurale montano, rendendolo succube di città e industrie in forte sviluppo della pianura (seppure uno sviluppo che, anch’esso, presto si rivelerà essere in parte effimero e insostenibile, «gonfiato » da «bolle», speculazioni, debiti e inefficienze varie, fino a configurare una sorta di suicidio ambientale e demografico, tanto da far rimpiangere spesso quello stesso mondo).
Per descrivere le trasformazioni, e la realtà attuale, non posso che pensare (come chiunque può fare nelle valli di Natisone, Torre e Cornappo in val Resia e Valcanale, le valli che lo stesso documento elenca) al mio borgo di Fusine, a ricordi di infanzia. C’era la scuola (nel mio caso orgogliosamente dedicata ad Armando Diaz, tanto che sarebbe facile fare oggi delle ironie), che poi sarà miseramente chiusa e abbandonata dagli stessi scolari; c’erano l’asilo e la posta, il teatro e varie attività del dopolavoro di una fabbrica che dava lavoro a centinaia di persone. La parrocchia, il centro sportivo, la scuola erano altrettanti centri di aggregazione per una comunità dove si parlavano, oltre a italiano e friulano,
sloveno e tedesco, vari altri dialetti e linguaggi (una sorta di anticipazione della globalizzazione); la squadra di calcio (la mitica Weissenfels) vinceva il campionato carni- co; negozi, alberghi rinomati, attività diverse creavano un insieme vivace e attivo tutto l’anno; la stazione del treno funzionava sia per passeggeri che merci, con treni magnifici che conducevano frotte di «villeggianti» (i «letoviščari», non pendolari macchinizzati della domenica) da ogni parte d’Italia e dall’estero verso i laghi e gli altri paesaggi delle «Giulie». Villeggianti che animavano una vita sociale già di per sé ricca, di cui i ricordi sono sagre di paese, allegre serate, gare di sci, corse di slitte, partite di calcio tra «scapoli» e «ammogliati», transumanza di mucche, profumo di latte appena munto, lana soffice di pecora e mille altre cose.
Un mondo scomparso e una realtà in cui oggi si stenta a garantire (di fatto se non di diritto) gli stessi livelli di «prestazione minima» di cui si discute tanto sui giornali; così per accessibilità, approvvigionamento, insegnamento, sanità, servizi e necessità quotidiane; così per gestione del territorio e delle risorse territoriali. La montagna sembra essere amministrata in modo residuale, a uso e consumo di chi vive in pianura, che guarda alle montagne dalle città, come a qualche cosa di lontano, benché pittoresco, come un area «depressa», da usare per esigenze (culturali, economiche, amministrative etc.) di chi in montagna non ci vive (una cava di inerti, un parcheggio per camion, grandi infrastrutture di dubbia utilità); o anche come area per ingegneri che devono fare pratica di idrogeologia o per costruttori in cerca di spazi per seconde case (che resteranno quasi senza eccezione vuote). O anche riserva naturale, in realtà una sorta di palude adattata a contenitore di «biodiversità», ma sempre meno adatta alla vita umana.
Una categoria che chi vive in montagna, facendo parte di una comunità che ha saputo nei millenni mantenere equilibrio tra sistemi naturali ed esigenze umane, al di là dei proclami e delle etichette di comodo, non può comprendere.
La «petizione Berzanti», inaugura un modo di fare, un atteggiamento di fiducia nella politica, che spesso però diventerà pura «rivendicazione». Da qual momento, la politica metterà a disposizione risorse, capacità, fondi, progetti per una miriade di iniziative che, come è facile constatare oggi, non si sono dimostrati utili, anzi, spesso dannosi (sarebbe facile fare un elenco di interventi di gestione del territorio, di pianificazione e urbanistica, di politiche fiscali, amministrative, che hanno provocato danni invece che benefici).
Dobbiamo constatare che, certamente, la politica non può tutto, e che le iniziative calate dall’alto (che sia Trieste o Udine, Bruxelles o Roma) si rivelano essere spesso fuorvianti, creano confusione e solo illusione di sviluppo (ovvero di «soldi facili»). Comunque sia, le istituzioni sono fatte di individui che spesso ragionano comodamente seduti in qualche palazzo in città, e comunque anch’essi– come tutti – sono soggetti al rischio di errori e permeabili a devianze e speculazioni che possano manifestarsi in qualsiasi circostanza.
Qualche cosa del genere è successo anche per la cultura, per gli interventi nel sociale, che gli autori del documento presentato a Berzanti non potevano immaginare (altra evidenza di una visione naïve, tipica del periodo, per una giovane democrazia): oggi conosciamo quali sono gli effetti di una politica che finanzia direttamente la cultura, creando il rischio di una dipendenza, oltre che di distorsioni di varia natura (a riguardo sarebbe il caso forse di pensare a misure di defiscalizzazione, piuttosto che di intervento diretto).
E’ evidente, la politica non può tutto, induce effetti collaterali, non voluti, e a volte rischia di fare danni irreparabili. Costruire una infrastruttura non significa di per sé migliorare l’accessibilità né liberare dall’isolamento; aprire una scuola, una biblioteca, o una cattedra di sloveno, non significa risolvere tutti i problemi di una minoranza linguistica, così come per qualsiasi attività: la spesa pubblica, oltre certe soglie, tende a perdere efficienza (come del resto previsto dallo stesso Keynes).
Quali le cause? Come sempre (rifuggendo da facili determinismi) le cose umane hanno motivazioni diverse e difficili da comprendere; la principale è forse quella che riguarda una sorta di attrazione «modernista» che le città della pianura esercitano sulle periferie rurali e montane. Un fatto che con il tempo genera un’inerzia, che sembra travolgere tutto. Così anche per gli schemi culturali che si formano di conseguenza, che penalizzano la campagna contro la città, la montagna contro la pianura, il «lavoro» e la tipica ingenuità di chi lavora cristianamente, vivendo «del sudore della propria fronte», contro la speculazione. E così per tutta una serie di errori di valutazione, nella pianificazione, nell’amministrazione, che del resto caratterizzano non solo la Slavia friulana, ma tutta la montagna friulana, a volte in modo forse ancor più drammatico, e che oggi devono essere affrontati (non possiamo girare la sguardo dall’altra parte).
Un fatto ancor più fastidioso se si pensa che nelle culture delle aree circostanti la Benecia l’ordine dei valori sembra mantenere una sua coerenza, in modo perfettamente reciproco (non occorre andare all’estero, in Slovenia o Austria, ma basti pensare ai vicini Cadore e Trentino, dove il «contadino» è il «re» sulla sua terra): un fatto che rende evidente l’errore di aver ceduto ad un modello di vita modernista, nel senso deteriore del termine. Un’evoluzione che porta al consolidamento di un senso di subalternità centro-periferia, che dà origine a posizioni di rendita (a volte di tipo parassitario), ad una frattura che si forma tra lavoro materiale e lavoro speculativo, e alla stessa perdita di efficienza per tutto il sistema (una sorta di «bolla» culturale e comportamentale, piuttosto che burocratica).
In realtà, oggi è facile capire perché le cose vanno male. La politica dell’ultimo mezzo secolo si ispira ad una visione distorta dello sviluppo, fino a degenerare in uno stravolgimento, inducendo i residui della modernità (e i contadini di montagna prima di tutto) ad una sorta di odio verso se stessi e verso il proprio mondo. La legge sembra aver perso il suo stesso senso, la cosa pubblica sembra essere a volte ostaggio delle lobby (del cemento, dell’asfalto, del petrolio), la cultura dei «social»: ormai siamo al paradosso che chi rispetta le regole viene punito (doppiamente punito, perché subisce un disservizio ma continua a pagare le tasse).
Recuperare sarà difficile; sarebbe necessario ricostruire tutto un circuito, come finalmente, bisogna dire, oggi certe avvedute leggi cercano di fare. Si può immaginare una miriade di interventi: sostegno alle economie locali, uso delle risorse montane
(legno, pietra), diffusione di tecnologie appropriate (mentre spadroneggiano ancora cemento, asfalto e petrolio, che importiamo da decine di migliaia di chilometri di distanza e che producono scorie di qualsiasi tipo); così nell’edilizia, nelle infrastrutture, nella produzione, nell’innovazione, nella tecnologia (caldaie a biomassa, micro-centrali idro-elettriche etc.).
Sarebbe allora necessario fornire un sostegno nelle prime fasi dello stesso circuito, defiscalizzando le economie locali (piuttosto che intervenire successivamente con un «piano » o con un finanziamento, che non potrà allora che essere «a pioggia»). Questo in realtà è l’unico modo per sostenere efficacemente le economie di vicinato (che spesso si rifugiano nel «sommerso»), favorendo attività tradizionali e artigianali, in genere le nuove iniziative, consolidando una nuova imprenditoria locale, radicata sul territorio, capace di individuare le sempre maggiori opportunità che le trasformazioni culturali ed economiche offrono in continuazione.
Così per fonti di energia, materie prime, nuove produzioni, servizi alle imprese e alle persone, incentivando edilizia di recupero, con ristrutturazione per case di abitazione, al posto di costruire nuove seconde case con conseguente consumo di suolo, per sostenere, oltre che l’economia, la residenza (reale, non fittizia) nelle aree periferiche; e così anche per alberghi, esercizi commerciali, e strutture ricettive, sulla base di piani regolatori realistici.
Ci vorrebbe una Goldman Sachs della montagna, per sostenere e individuare occasioni di investimento, quindi banchieri professionisti, non semplici burocrati del credito che iscrivono ipoteche su inutili capannoni che oltre tutto rovinano il paesaggio.
In ogni settore è possibile individuare delle possibilità di miglioramento. È sufficiente guardarsi un po’ in giro. Così per accessibilità e mobilità (basterebbe un abbonamento a tutti i mezzi per migliorare sensibilmente la situazione); così per strutture dell’assistenza, della comunicazione, della formazione (università comprese), che a volte presentano programmi obsoleti (basta fare un confronto in altre realtà), fino ad essere completamente fuori dalla realtà. Quindi una nuova politica del territorio: ovunque troviamo errori, interventi grossolani, sprechi che derivano da mezzo secolo di cattiva gestione, che almeno possono rappresentare una base di esperienza per cercare di evitare di compierne degli altri.
Non è troppo tardi. Certamente, siamo ormai in lotta per la stessa sopravvivenza del nostro ambiente, dei nostri paesi, di noi stessi: passiamo Ferragosto a ripulire le immondizie da cassonetti straboccanti (per non fare troppa brutta figura con i turisti che arrivano dall’estero, e che ci passano accanto), a preoccuparci per il territorio che si sta impaludando (perché un canale non viene bonificato ormai da decenni); ormai abbiamo paura persino a protestare perché, quando poi ci mandano una ruspa per fare qualche lavoro, non si sa che cosa andranno a fare e magari rischiano di fare ulteriori danni: l’inefficienza del «pubblico» si manifesta in molti modi, anche inaspettati, mentre la comunità locale sembra ormai aver perso qualsiasi forza, e qualsiasi volontà di partecipare Cosa ci resta da chiedere? Come possiamo continuare a fidarci delle istituzioni, ma anche di noi stessi? È pensabile una sorta di anti-programma della politica, un ritorno alle origini? Evidentemente non è possibile. E allora che cosa ci sfugge? Come uscire da questo circuito vizioso? Forse la risposta è più semplice di quello che può sembrare. È necessario ricominciare a chiedere alla politica ciò che altri fanno abitualmente, che ci siano regole chiare e credibili, tasse «umane» e libertà di lavorare in pace.
Queste sono le «urgenti richieste» perché noi, le genti slovene, ovvero chi resta in paese, possiamo «essere anche migliori cittadini della Repubblica di quanto lo siamo stati in passato,
Igor Jelen  docente di geografia politica ed economica all’Università di Trieste

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