17 mag 2018

L'opinione di Riccardo Ruttar

 L’uovo di Colombo due secoli dopo

 Ho letto con molto interesse l’articolo pubblicato su un’intera pagina del quotidiano Primorski dnevnik del 15 aprile. La ricercatrice, pedagogista presso l’Università di Koper-Capodistria, Maja Mezgec, ha relazionato su una ricerca che riguarda la nostra realtà: «Il trasferimento intergenerazionale della lingua (slovena) nella Benecia». Nonni, genitori e figli sono stati l’oggetto dell’indagine, per farsi un’idea di come lo sloveno, sia come dialetto che come, eventualmente, lingua standard, sia stato trasmesso all’attuale generazione, quella che frequenta la scuola bilingue di Špietar – S. Pietro al Natisone. Limito il pensiero alle osservazioni conclusive della ricerca, dove potrei fermarmi già alla prima affermazione: «Lo sloveno in Benecia non è presente in modo uniforme sul territorio: nelle situazioni di conversazione in pubblico ha un ruolo marginale, e lo stesso vale nel contesto famigliare. Neppure in ambito scolastico svolge un ruolo dominate». Non è difficile capire il fenomeno se i primi a non usarlo, lo sloveno, sono spesso coloro che svolgono un ruolo primario nell’insegnamento e nell’azione educatrice. Mancando modelli positivi e costanti cui ispirarsi, il processo di identificazione non può essere che precario o non avvenire. Ci voleva una ricerca del 2017 per esprimere un concetto come il seguente? «La generazione più anziana, vale a dire di coloro che parlano il dialetto locale, rappresenta un prezioso patrimonio, e perciò va promossa nel maggior modo possibile la collaborazione inter- SLOVIT n° 4 del 30/4/18 | pag. 7 generazionale». L’uovo di Colombo, ma con due secoli di ritardo! Personalmente, per avere una laurea in psicopedagogia e per aver insegnato ai bambini sia sulla fascia confinaria in ambito sloveno che in quello friulano, dove rimanevano ancora dominanti le rispettive parlate, potrei citare quanto in merito alla questione del travaso linguistico intergenerazionale avevo scritto già nel lontano 1992, e ciò dopo 13 anni di lavoro presso la sede cividalese dell’Istituto sloveno di ricerche. Se il mio interesse era, allora come oggi, quello della salvaguardia linguistica in funzione del recupero, della crescita e dello sviluppo dell’identità, del promuovere il senso di appartenenza, del dare il giusto valore alle proprie radici culturali e storiche, credo di aver fatto inutilmente da Cassandra omerica. Il titolo di un mio articolo di allora, riferito al modello di insegnamento nella scuola bilingue: «Fitopolitica», suonava provocatorio. E come tale fu interpretato tutto il contenuto, scartandone il valore psicopedagogico. Fui addirittura tacciato di disfattismo nei confronti del totem/tabù della agognata «tutela globale». La questione che da subito si presentava lapalissiana – così come lo è tutt’ora – era proprio questa: che tipo di trasferimento linguistico intergenerazionale fosse «naturalmente» possibile tra un nonno parlante lo sloveno, leggasi dialetto, ed il nipotino che a scuola usasse, per quel che poteva e sapeva, una lingua che per lo più era considerata, a torto o a ragione, «straniera»? Tutto ciò in un ambiente fortemente ostile ad iniziare dalle istituzioni pubbliche. La mia «fissazione» sul dialetto non aveva certo il senso che oggi gli attribuiscono i mestatori di professione e gli imberbi esegeti del natisoniano. C’è modo e modo di affrontare il problema, quello psicologicamente efficace e produttivo, per «elevare» il dialetto, l’anima autoctona e radicata nei secoli, al livello di reale mezzo di comunicazione moderno, senza artificiose esclusioni o sottovalutazioni; quello di enfatizzarlo promuovendolo artificiosamente a lingua o quello di ignorarlo o metterlo in disparte come fosse uno strumento in disuso. Ma è la lingua che si parla quella che fa dell’uomo se stesso, che dà senso alle cose e che crea i valori; perché ogni parola oltre al senso semantico ha un suo valore affettivo, evoca immagini, sensazioni, ricordi e quant’altro; è l’anima. Ecco cosa ci è mancato, l’anima, ed i frutti, anche quando ci sono, rimangono acerbi. Riccardo Ruttar (Dom, 30. 4. 2018)
da http://www.dom.it/wp-content/uploads/2018/05/Slovit-4-30.04.2018.pdf

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