10 giu 2019

«Sarò fedele fino alla fine


TRIESTE-TRST

Samo Pahor, difensore dei diritti delle minoranze, festeggia 80 anni

Mi aspetta in una caffetteria in città, dove ci siamo accordati di incontrarci per l’intervista, con un opuscolo ristampato della sentenza n. 62 del 1992 della Corte costituzionale. Quella in cui il supremo organo giurisdizionale italiano sostiene che si tratta di tutela piena della minoranza quando nel suo territorio di insediamento è possibile per gli interlocutori, nei rapporti con l’amministrazione pubblica, utilizzare la lingua madre. «Se lo pubblicate sulla prima pagina del quotidiano non c’è bisogno di alcuna intervista», afferma Samo Pahor, che sull’opuscolo ha scritto in grassetto «Ci aspettiamo questo e niente di meno!». L’intervista, poi, fluisce: la possibilità la offre la data di oggi, in cui il professore di storia in pensione residente a San Giovanni-Sveti Ivan – difensore instancabile dei diritti della minoranza – festeggia ottant’anni. Qual è il suo primo ricordo legato alla valorizzazione dei diritti delle minoranze? Quando ha capito che questa sarebbe stata la sua battaglia? «Quando ho visto lo Statuto speciale del 1954. Avevo 15 anni. Ma dovete considerare che mio papà già negli anni Venti è stato perseguitato e che anche la Jugoslavia non ha fatto affidamento su di lui. Si è trattato, direi, di una solida educazione familiare».Come si definirebbe con qualche parola? «Racconterò una storia. Durante un’intervista alla radio ho detto che a casa mi hanno insegnato che gli interessi della comunità hanno precedenza su quelli personali. Molte persone in seguito mi hanno fermato sconvolte, chiedendomi come possa pensarla così. Se gli interessi sono comuni hanno, in effetti, la precedenza in quanto positivi per più persone: questa è la mia direzione». Nella corso della vita ha vinto molte battaglie giudiziarie, la Corte costituzionale ha giudicato molte volte a suo favore. Qualcuna l’ha rallegrata più delle altre? «No. Mi ha solo sconsolato che a seguito della prima sentenza, ottenuta nel 1982, la minoranza slovena o i suoi dirigenti non si siano preoccupati di sviluppare la questione. Esattamente come non hanno reagito alla seconda e terza sentenza della Corte costituzionale. Tutte e tre facevano riferimento all’utilizzo dello sloveno e tutte e tre stabilivano che abbiamo questo diritto indipendentemente dal fatto che conosciamo la lingua dello Stato. Non tenere in nessun conto le sentenze della Corte costituzionale è semplicemente sciocco. Se una sentenza ti garantisce il diritto di utilizzare lo sloveno devi ampliare questo diritto. Questa sentenza prevale rispetto alle altre perché chiarisce cosa voglia dire tutelare le minoranze. La legge di tutela non lo assicura ed è per questo, ovviamente, incostituzionale». I sostenitori della legge di tutela le obietterebbero che essa prevede la possibilità di usare lo sloveno. Proprio per questo sono stati istituiti sportelli specifici. «La legge non viene applicata. È scritto che verranno costituiti uffici nei quali gli sloveni potranno sbrigare tutte le operazioni nella loro lingua. Qualche giorno fa ho detto al capo di gabinetto in Prefettura che non si tratta di uffici, ma di sportelli che non restano nemmeno aperti quanto gli uffici di cui sarebbero espressione». Gli sforzi per l’utilizzo dello sloveno negli enti pubblici nel 1988 l’hanno fatta finire addirittura in carcere. Che ricordo ha oggi dell’incidente alla posta triestina? «È iniziato perché ho provato per tre volte a compilare in sloveno l’assegno per il bollo dell’auto. Me l’hanno respinto per tre volte e per tre volte ho scritto al presidente del Consiglio, al ministro delle Finanze e a quello delle Poste. Sulla base delle mie parole la magistratura ha formulato tre accuse contro di me, ma il pubblico ministero ha detto all’avvocato Škrk che non si trattava di nulla. Ho capito che volevano intimorirmi, ma, poiché non volevo che mi dessero l’amnistia – con l’amnistia sei colpevole senza essere perseguibile –, ho preteso che mi inserissero immediatamente nella lista delle udienze. Hanno aspettato ancora qualche mese… cosa che ha rilevato anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, assegnandomi 27 milioni di lire di risarcimento per danno morale». Li ha ricevuti? «Mi hanno rubato 2000 lire per il bollo. Ma non ho ancora sentito o letto che le nostre organizzazioni si siano mai rivolte alla Corte europea». L’incidente alla posta è avvenuto per queste tre lettere? «Sì. Sul tavolo del direttore provinciale della posta ho visto un’altra circolare del commissario del governo con la garanzia del diritto di utilizzare lo sloveno. Per questo mi sono recato là e ho parlato in sloveno. Non mi hanno ricevuto. Ho scritto al direttore che sarei ritornato il 10 febbraio alle 8.10 e che desideravo che fosse presente un interprete per lo sloveno. Quest’ultimo non era presente. Hanno chiamato la polizia affinché mi allontanasse con la forza dallo sportello. Sono rimasto in carcere per dieci giorni». Il fatto ha avuto grande eco, gli studenti hanno scioperato… «Grande ma inopportuno». Ripeterebbe l’esperienza e il metodo? «Oggi vado avanti come allora, ma non ci provano più: hanno capito che conosco le leggi meglio di loro. Dal primo gennaio dell’anno scorso viaggio gratis sugli autobus urbani. Qualche tempo fa volevo che il controllore mi desse la multa, tutto l’autobus si è messo a ridere, ma non me l’ha data… Vi immaginate se, al posto di un solo Samo Pahor, dieci sloveni avessero agito così?» Probabilmente non sarebbe riuscito in tutte queste battaglie se non avesse avuto il sostegno da parte della famiglia. Credo che, in particolare negli anni ‘70 e ‘80, l’atteggiamento verso gli sloveni fosse meno rispettoso, non era facile. Si è pentito di aver coinvolto la famiglia nella battaglia? «Non li ho coinvolti, gli sloveni lo hanno fatto, le federazioni, quelli che ricevono i fondi…» Negli ultimi anni si occupa molto del revisionismo e delle foibe. Cosa ha scoperto? «Senza alcun fondamento già dal 1945 gli italiani hanno iniziato a gridare arrabbiati quanti connazionali fossero stati uccisi a Basovizza e presso la cosiddetta foiba di Monrupino. Nei documenti degli Alleati è confermato che in entrambi i luoghi erano presenti solamente corpi di soldati tedeschi, ma hanno deciso che non lo avrebbero detto, che non hanno trovato nulla, in modo da non screditare il Cln, che ha mentito, e da non turbare l’opinione pubblica italiana. Perché hanno fatto tanto rumore per questi due buchi? Per avere un contraltare rispetto al nostro monumento nel prato incolto di Basovizza e a quello di Opicina. Questa è disonestà inaccettabile secondo la legislazione nazionale e internazionale».
da SLOVIT

3 commenti:

  1. Cara Olga, questo è un vero documento, una fedeltà intramontabile, complimenti.
    Ciao e buon pomeriggio con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

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  2. Purtroppo io non ti sono stato molto fedele in questi ultimi tempi ma ho avuto qualche problema. Ottimo post e spero di essere più presente nel futuro. Un amichevole abbraccio.

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